Il confronto fra il dentro e il fuori, del proprio corpo verso la cella e di questa verso la realtà, verso la vita che sta oltre le sbarre. Dentro la prigione la disumanità si fa emblematica, permea ogni struttura, ogni soffitto, ogni pavimento, ogni muro che ti circonda. L’altro da sé stessi è una ostilità che, via via, viene assunta dall’immaterialità del carcere, dalle guardie, dai poliziotti, persino dagli avvocati che ti dovrebbero difendere e con cui dovresti avere un rapporto diverso dal resto.
Ma il confronto lo devi fare, ti è inevitabile, ineludibile, imprescindibile persino: perché ti aiuta a sopravvivere, a mantenere un collegamento, a tracciare nell’aria un filo di resistenza che ti lega ancora ad un microsenso esistenziale, ad una continuità logica tra ciò che hai fatto e ciò che intendi fare ora.
Resistere per esistere. E per poter mettere in pratica questa ennesima lotta, che ti mette di fronte a tutto un potere, ad uno Stato, ad un mostro leviatanico che ti guarda sospettoso, pronto a reprimere ogni tentativo che vuoi fare di aprire uno spiraglio contraddittorio nelle sue membra che si sorreggono sulla voce popolare.
La voce di chi condanna il terrorismo, di chi lo associa, blandito da una propaganda incessante, ad ogni gesto, ad ogni lotta indipendentista, ad ogni parola che può sovvertire un ordine costituito che non intende arretrare: pena la scoperta che tutto quel castello di regole, dettami e imposizioni è fragilissimo e si regge soltanto sull’obbedienza che, a sua volta, si lega strettamente all’interesse economico, al dominio politico che ne deriva, al controllo (anti)sociale che ne consegue.
E tu sei nella cella, Bobby. Afferri i segnali più svariati di una quotidianità che non vedi: ma la neve cade, si solidifica, si squaglia quando le versi addosso il tè inglese che ti dà alla nausea un po’ per il sapore e un po’ perché è fatto dai tuoi carcerieri. Con una mano ti porgono la bevanda nazionale di Sua Maestà e con l’altra ti perquisiscono, ti penetrano letteralmente per cercare oggetti nascosti negli orifizi fisici: spogliato di tutto, tranne che della volontà di non lasciarsi piegare da quel potere straniero, da quell’imperialismo che arriva fin sulla pelle, che odora delle divise e del grigiore metallico delle sbarre.
Paradossalmente, quando sei in cella ti pare di essere al sicuro, di poterti ripetere che lì, almeno lì nessuno ripeterà le sequele di calci che hai preso nello stomaco, sulla schiena.
Durante gli interrogatori, durante le ispezioni corporali, mentre pensavi, senza sperarci troppo, che in fondo il liberalismo inglese un poco avrebbe trovato spazio anche nelle prigioni reali. Invece stava tutto al di fuori di esse, permeando le pubbliche virtù della buona società inglese e britannica, dando al mondo l’impressione che la terra che aveva ospitato i profughi più sovversivi, come quel Karl Marx che riposa nel cimitero di Highgate, non potesse scendere così in basso nel trattare i suoi prigionieri.
Invece il sistema carcerario ti ha dimostrato di essere una delle peggiori protesi del potere, anche (ma forse non soprattutto) se si parla di democrazie parlamentari, di Stati moderni, di esempi da imitare per quelle nazioni che ancora non sono arrivate al suffragio universale, al superamento di tanti, troppi assolutismi che prendono i più differenti nomi, le più bizzarre forme.
Mentre ti picchiano e ti seviziano ti salvi solo mandando la mente altrove, fuori da lì, per non sentire suoni che non conoscevi e che diventano familiari: mentre ti scaraventano contro un muro e le ossa si incrinano, si frantumano. Li impari a conoscere tutti quei dolori che generano smorfie e contorsioni per evitare anche solo un secondo di sofferenza. Intorno a te ci sono altri ragazzi, altri uomini che sputano sangue, che stanno distesi sul gelo del pavimento. Qualcuno si rannicchia, qualcun altro si abbandona alla rassegnazione. Per il momento.
Perché il coraggio va ricostruito dentro sé stessi, con lucidità. Ma è difficile averla e soprattutto mantenerla in una condizione di deprivazione dei propri sensi, dell’indipendenza personale che è, poi, se ci pensi bene l’indipendenza di una intera comunità, di un popolo. Perché nessun corpo è completamente separabile dagli altri; nessuna mente vive da sola, isolandosi dal resto del mondo. In particolar modo in carcere.
La solitudine della prigione la superi, nei primi giorni, se riesci a guardare oltre quelle lacrime che ti fanno inciampare, perché ti annebbiano la vista, sfocano tutto e sembrano quasi volerti proteggere da quello che ti circonda e di opprime. Ripensi all’allodola di cui ti parlava tuo nonno, che doveva vivere libera perché era il simbolo di una felicità che altrimenti, se rinchiusa per gioco da un bambino, non avrebbe potuto provare e mostrare al mondo.
Il canto dell’allodola non lo puoi sentire se la metti in gabbia, perché ne cambi la natura, la costringi ad essere ciò che non può e non vuole essere, rimanendo fedele al proprio spirito, a sé stessa in pratica. E non serve sbraitare, accusarla di ingratitudine: tutti i pasti che ha ogni giorno tra quelle sbarre non servono a tenerla viva. Si lascerà morire piuttosto che essere costretta a cantare a comando, per il piacere di un padrone piuttosto che per la sua straordinaria natura.
Ti sei ripetuto la storia che ti raccontava il nonno tante volte, per dirti che non si può essere dei prigionieri qualsiasi, disposti a scendere a patti col potere pur di sopravvivere. Dove hai trovato quel coraggio lo sai soltanto tu. Ma, in fondo, è il medesimo coraggio di tanti altri prigionieri, in diversi periodi della storia, che hanno dovuto fare i conti con le peggiori perversioni del potere, con le più spietate dittature. Dai ragazzi della Rosa bianca nella Germania di Hitler ai partigiani torturati e uccisi dai nazifascisti in Italia, a tutti i resistenti trucidati da qualunque Stato in qualunque parte del mondo.
Non c’è egocentrismo nel diventare un simbolo di rivendicazione della libertà. Si segue il proprio istinto unitamente alle proprie idee, a convinzioni per cui vale la pena, così, dare un senso alla vita. Alla propria e a quella di altri. Nessuno vorrebbe mai essere un eroe, a parte gli sciocchi. E tanto meno nessuno vorrebbe diventarlo attraverso il martirio.
Ti sei sentito come l’allodola più e più volte, perché tu non eri un prigioniero comune, ma un ragazzo che aveva scelto di combattere in carcere con l’arma più potente: la resistenza attiva, rifiutandoti di cambiare per adeguarti alle condizioni dei blocchi dove ti portano. Quello “H” è uno dei più duri. Hai scritto in “Un giorno della mia vita“: «Se fossi un prigioniero comune mi presterebbero pochissima, o addirittura nessuna attenzione, ben sapendo che mi conformerei ai loro capricci istituzionali».
Qualche cronista inglese ha scritto che cercavi notorietà. E’ in questi casi che il giornalismo e la cultura diventano meretrici del potere, si squalificano a tal punto da mortificare qualunque racconto possano fare, anche il più aderente e credibile. Hai cercato di attirare l’attenzione su di te per mettere al centro, proprio come – per altri versi e in altri contesti, e pure con un altro approccio alla lotta – aveva fatto Ghandi contro il dominio inglese in India.
Tu non sei un nonviolento, ma non sei nemmeno un terrorista. Sei un amante della libertà, del tuo paese, di una Irlanda che per settecento anni è stata dominata da re stranieri, diventando terra di emigranti che hanno fondato altre nazioni. Oltre oceano, là dove pareva che i ribelli coloniali avessero finalmente aperto sullo scenario della storia tutte le contraddizioni delle monarchie, delle dominazioni fondate sulle tassazioni esose e sul controllo arbitrario delle popolazioni.
La storia si ripete, le lotte anche. Ma le forme delle lotte cambiano. Digiunare, usare il proprio corpo per mostrare tutta l’indignazione verso le ingiustizie, non collaborare col male, è l’imperativo morale di una nuova stagione di opposizione che gli inglesi conoscono già. Ma mai del tutto. Perché l’uomo che aveva imprigionato l’allodola – ti disse tuo nonno – alla fine cadde prigioniero di una delle proprie trappole e nessuno gli venne in soccorso. Anzi, la sua gente lo derise e gli voltò le spalle.
UN GIORNO DELLA MIA VITA
L’INFERNO DEL CARCERE E LA TRAGEDIA DELL’IRLANDA IN LOTTA
BOBBY SANDS
FELTRINELLI, 2014
€ 10,00
MARCO SFERINI
19 gennaio 2022
foto: particolare della copertina del libro