In “La Rivoluzione russa. Un esame critico“, scritto nel 1919 e pubblicato dopo la sua morte, nel 1922, Rosa Luxemburg esprime un pensiero che è diventato abbastanza celebre e ogni tanto lo si ritrova citato su molti siti Internet, molto poco invece altrove:
“La libertà è sempre soltanto la libertà di chi pensa diversamente. Non per fanatismo per la «giustizia», ma perché tutto quanto vi è di istruttivo, di salutare, di purificatore nella libertà politica dipende da questo modo di essere, e perde la sua efficacia quando la «libertà» diventa privilegio.“.
E’ la riproposizione pari pari del metodo dialettico nella discussione che si può e si deve avere ogni volta che esistono differenti opinioni su un determinato tema, su una problematica di varia natura.
Dopo il voto del 4 marzo scorso chi si è permesso di avanzare delle critiche al percorso di Potere al Popolo! è stato tacciato di disfattismo, di riproposizione di vecchi boicottaggi della ricerca di una unità della sinistra che questa volta pare ammantata da sacri dogmi in forma di imperativi categorici così espressi: “Indietro non si torna!“, con tanto di punto esclamativo a significare che chi quel punto lo toglie e lo sostituisce con il fratello interrogativo, ecco qui che diviene subito nemico del progetto, agente provocatore di chissà bene cosa, avversario dell’unità di classe, della grande risalita del proletariato moderno verso le magnifiche sorti e progressive che ci attendono tutte e tutti.
Chi dopo il 4 marzo ha osato avanzare critiche per il semplice, forse banale, fatto che 371.500 voti non possono considerarsi un successo elettorale è stato rimbrottato con frasi di questo tipo: “Ma cosa vi aspettavate di ottenere in due soli mesi di lavoro?“; “Davvero pensavate di arrivare al 3%?“; “E’ una vittoria politica e sociale perché le elezioni sono soltanto un passaggio.”.
Stando poi ai comunicati ufficiali di Potere al Popolo! tramite e-mail, si evince ancora una volta che:
“Noi l’abbiamo detto nella nostra prima assemblea nazionale tre mesi e mezzo fa: le elezioni sono solo l’inizio. Sono una sfida, la prima tappa, di un progetto più grande, di aggregazione di forze sociali, di mobilitazioni di giovani e di disaffezionati della politica. Sono state il pretesto per metterci insieme, farci vedere da milioni di persone, impedire subito che questo paese in questi mesi slittasse ancora più a destra.“.
Mi colpisce molto l’utilizzo della parola “pretesto“. Le elezioni sono un pretesto? Il termine, certamente usato nel suo significato estensivo e generico (“Occasione o modo per ottenere un risultato“, vocabolario Treccani della Lingua italiana) conia una nuova metodologia della politica di una sinistra forse nuova, moderna ma che molto poco ha a che vedere con la tradizione di lotta dei comunisti non solo in Italia ma nel resto dell’Europa e del mondo attraverso sia lo strumento parlamentare sia quello più veracemente sociale.
Un pretesto per creare una formazione politica ampia, di sinistra anticapitalista e antiliberista? Dunque oltre ad essere un mero passaggio verso qualcosa di più grande, le elezioni altro non sono se non un viatico mal sopportato, da cui passare per forza per dimostrare che si esiste e da lì partire per costruire ciò che veramente conta: il radicamento sociale di un movimento, di un partito. Una occasione, dunque, e niente più.
E’ una logica politica (ed anche sociale) curiosa: ho sempre pensato – e continuo a pensare – che le elezioni sono il punto non pretestuoso o pretestuale per la costruzione di un progetto di stravolgimento dell’assetto attuale della società in cui viviamo, ma nel voto si esprime quella delega che deriva da una presa di coscienza che dovrebbe essere ben salda e derivare da un convincimento a sua volta prodotto dall’identificazione con una visione dell’insieme molto differente rispetto a tutte le altre proposte in campo.
Quando nel 1994 mi sono iscritto a Rifondazione Comunista, l’ho fatto proprio perché percepivo chiaramente che quel partito era l’unico che mi rappresentava in quanto esprimeva politicamente le mie stesse idee in merito al cambiamento sociale, alla voglia di rivoluzione che si è dispersa nel tempo, logorata da tanti piccoli egoismi non solo di partito ma anche quotidianamente vissuti e che hanno distrutto quella che ho già avuto modo di definire come “domanda di uguaglianza”.
Potere al Popolo! ha generato un entusiasmo tra chi ogni giorno vive la passione di una politica che la stragrande maggioranza della popolazione italiana invece non ha, anzi osteggia proprio quell’espressione istituzionale della rappresentanza sociale che dovrebbe essere invece incoraggiata da noi comuniste e comunisti. Ed è un bene che almeno una ampia fetta di militanti si sia ritrovata entusiasta nella partecipazione ad una campagna elettorale difficile sotto molti punti di vista: oscuramento mediatico, scarsissime risorse, persino le avverse condizioni meteorologiche non hanno aiutato chi ha vissuto come noi di una visibilità nobile, esclusivamente data dal sacrificio del tempo di tante compagne e tanti compagni che hanno affisso manifesti e distribuito volantini in condizioni davvero scoraggianti, estreme.
Dunque, un entusiasmo che è valore aggiunto rispetto alle precedenti tornate elettorali, ma che non è stato sufficiente a generare un interesse tale da collegare la percezione del popolo con Potere al Popolo! E qui si apre un confronto non meramente dialettico, non un esercizio su chi è più bravo ad esprimersi con le parole ma su una analisi politica del voto, non semplicemente su una presa d’atto di un dato in percentuale (l’1%) o di un dato in termini assoluti (più di 371.000 voti).
E a tal proposito, leggo dalla mail di Potere al Popolo!: “Possiamo dire che la sfida è stata vinta.“.
Ecco, diversamente dalle compagne e dai compagni di Potere al Popolo! (penso siano i giovani dell’Ex OPG “Je so’ pazzo!” ad aver scritto quelle righe) ritengo che la sfida non sia stata vinta. E non soltanto per il misero, deludente risultato elettorale che, se contestualizzato nel panorama generale del voto diventa persino esiziale, disastroso, ma semmai per il fatto che non si può dichiarare tre mesi e mezzo prima che si va ad affrontare un punto di partenza e che quel punto di partenza è a prescindere una conquista perché prima si ritiene vi sia il vuoto, il nulla, la tabula rasa completa della sinistra e del popolo della sinistra.
E’ una affermazione pretestuosa, questa sì: il vero pretesto sta qui, nel considerare qualunque risultato una vittoria, nel rimettere l’orologio della storia sociale e politica della sinistra comunista, di alternativa, radicale (chiamatela un po’ come meglio vi aggrada) avanti, per non rivivere il passato, per affermare che tutto rinasce con Potere al Popolo! e che “non si torna indietro!“.
Mentre indietro ci sono macerie, ci sono sconfitte, delusioni e un distacco complesso, ancora da comprendere bene, tra una popolazione che si fa sempre più misera e una rappresentanza della sinistra politica che non può essere liquidata tutta come obsolescente, inutile e quindi superabile.
Non è accettabile che ogni proposta critica venga vissuta come l’infrangimento di un sogno dell’andare “avanti”. Come se l'”indietro” fosse una qualunque idea bislacca, e quindi stigmatizzabile, di rimodulazione dello schema di partecipazione ad una esperienza di rinascita della sinistra in Italia e non potesse invece essere motivo di attenzione, di considerazione di esperienze diverse che portano a differenti giudizi sull’esito di un voto che non può essere etichettato come un semplice test, un semplice passaggio obbligato e valesse solo per questo e non per altro.
Colgo con entusiasmo anche io la rinata voglia di molte persone di sinistra di ritrovare uno spazio agibile per rimettersi in gioco senza pretendere nulla, con quella sana passione civile, politica e morale che un tempo era la tensione che univa il “Paese nel Paese“. Ho colto e colgo anche io con grande fiducia la voglia di unire in questo percorso sia singoli sia soggetti organizzati. Penso sia impossibile prescindere gli uni dagli altri e contrapporre singolarità a collettività.
Ma la metodologia di costruzione di un nuovo soggetto politico non può essere primaria rispetto al valore politico di quel progetto espressosi nel voto del 4 marzo: è questo il punto centrale di una riflessione che deve essere fatta e deve essere vissuta appieno se si vuole veramente “costruire” tanto nella società quanto nell’odiato, temuto e vilipeso “palazzo”.
E’ evidente che si vengono a confrontare diversi approcci culturali e sociali ad un modo di fare politica nuovo per i giovani che hanno lanciato questa esperienza e invece quasi consuetudinario per noi che lo viviamo attraverso una comunità che, con tutte le sue insufficienze, lacune e dispersioni, esiste e ha consentito a Potere al Popolo! di potersi presentare in tutta Italia. Penso che anche questo sia un valore aggiunto: una passione di migliaia di militanti comunisti che si unisce alla passione di altrettante migliaia di militanti di centri sociali, movimenti contro le grandi opere, in difesa della democrazia, contro il neofascismo, per i diritti delle donne e la difesa dei diritti civili.
E’ per questo che bisogna che la critica sia sviluppata. Ma per svilupparla occorre abbandonare ogni tentazione dogmatica, ogni pregiudiziale verso chi critica reputandolo a priori un distruttore di una innovazione, un perditempo che vuole soltanto soloneggiare. Se si impedisce la critica senza impedirla veramente, affermando che non si può non andare avanti e che ogni altro atteggiamento è disfattismo e nichilismo (magari di sinistra!).
Mi piace molto il finale della e-mail di Potere al Popolo! ricevuta ieri:
“Siamo quelli che c’erano prima, ci sono durante, ci saranno dopo. Solo che ora possiamo fare meglio quello che già facevamo. Lo possiamo fare sotto una sola bandiera, con maggiore coordinamento, con il sentimento di stare tutti dallo stesso lato della barricata.“.
Mi ha ricordato proprio la mia cara Rosa Luxemburg quando, dopo la disfatta dell’insurrezione spartachista a Berlino, ebbe a scrivere:
“«L’ordine regna a Berlino!» Stupidi sbirri! Il vostro «ordine» è costruito sulla sabbia. Già domani la rivoluzione si ergerà nuovamente e annuncerà, con vostro profondo orrore, con un suono di squilla: «Ero, sono, sarò!».” (Die Ordnung herrscht in Berlin (L’ordine regna a Berlino), «Die rote Fahne», 14 gennaio 1919)
Ecco, pensiamoci così, ma facciamolo con la disposizione politica di un animo pronto a mettersi in discussione sempre, senza chiudere gli occhi su un disastro elettorale che è necessariamente disastro politico. Invece ciò che eravamo pare non essere più di tanto importante o degno di considerazione, ciò che siamo pare non contare ai fini di un giudizio politico e sembra avere un ruolo soltanto il futuro del ciò che saremo.
Senza tenere conto del passato e senza coscienza del presente non si costruisce nessun nuovo potenziale politico e sociale a sinistra per il futuro e nel futuro.
MARCO SFERINI
13 marzo 2018
foto tratta dalla pagina Facebook di Potere al Popolo!