Negli ultimi mesi il nome di don Milani è risuonato in maniera quasi ossessiva sui principali canali d’informazione nazionale. Polemiche spesso vuote o comunque pretestuose, ma anche contributi di grande qualità e rilevanza, come l’opera omnia pubblicata in due tomi nella collana dei Meridiani di Mondadori e diretta da Alberto Melloni, a cui hanno collaborato Anna Carfora, Valentina Orlando, Federico Ruozzi, e Sergio Tanzarella. A quest’ultimo, docente di Storia della Chiesa presso la Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, dobbiamo anche la pubblicazione del libro Lettera ai cappellani militari. Lettera ai giudici (Il Pozzo di Giacobbe, pp. 168, euro 14.90). Si tratta di due testi particolarmente importanti nella produzione di Milani, Tanzarella li inserisce nel loro contesto storico e nella biografia del prete di Barbiana.
Nel primo dei due testi sono parole scritte quasi a caldo, dopo la lettura insieme ai suoi ragazzi del «comunicato stampa» pubblicato dai cappellani militari in congedo della regione Toscana. A Milani quell’accusa di viltà rivolta ai giovani obiettori che hanno pagato con il carcere la scelta di rifiutare la divisa è risultata intollerabile, soprattutto per la sua provenienza clerico-militare, quasi un simbolo del sistema di potere. Da qui la decisione di impegnare la sua scuola nella preparazione di un documento collettivo che viene inviato a più di 800 quotidiani.
Come è noto, la lettera ruota attorno al problema del diritto alla disobbedienza alla leva, ma il ragionamento si snoda in più direzioni che toccano alcuni nervi scoperti: la legittimità di un potere ingiusto, la possibilità stessa della guerra nell’età atomica, e poi l’utilizzo strumentale che è stato fatto dell’idea di patria per mobilitare le masse in difesa delle oligarchie. Milani propone quindi un excursus storico – dalle guerre risorgimentali, passando l’«inutile strage» del ’15-‘18 e le imprese fasciste – che individua nella Resistenza l’unica «guerra giusta», cioè «non di offesa delle altrui Patrie, ma di difesa della nostra», una guerra particolarmente significativa perché combattuta da un esercito che aveva disobbedito. Quindi entra nel merito dell’attualità italiana, uno dei pochi paesi cui l’obiezione rimane ancora reato grave.
In questo clima la decisione del settimanale comunista «Rinascita» – di cui è vice-direttore responsabile Luca Pavolini – di pubblicare la lettera fa esplodere il caso. Milani e Pavolini vengono denunciati da un gruppo di ex-combattenti per apologia di reato e istigazione a delinquere. Come emerge in maniera chiara dalla ricostruzione del curatore, l’arcivescovo di Firenze Florit non si mostra certo solidale e a Barbiana arrivano anche vere e proprie lettere di ingiuria e di minaccia (spalleggiate dalla campagna denigratoria della stampa fascista).
Esprimono vicinanza invece personalità di rilievo quali Giorgio La Pira e soprattutto Aldo Capitini, teorico della nonviolenza e organizzatore nel 1961 della prima marcia Perugia-Assisi, che decide di attivare una rete di solidarietà. Grazie alla ricerca di Tanzarella, fondata su una serie di fonti inedite (comprese, in particolare, le fonti processuali) sappiamo che Milani si era rivolto anche al giurista Arturo Carlo Jemolo e a Giorgio Peyrot, responsabile legale della Tavola Valdese a Roma, che lo avrebbero aiutato a organizzare la strategia difensiva. Il risultato sarà quella Lettera ai giudici che Milani, ormai gravemente ammalato, fa pervenire al Tribunale e distribuisce alla stampa nazionale.
È una testimonianza alta di moralità educativa (e sacerdotale), una lezione sulla disobbedienza civile che mette in discussione il potere di giudicare chi si batte per una legge giusta, chi si fa precursore dei tempi annunciati dalla trasformazione italiana, dal Concilio Vaticano II, ma non ancora recepiti dalla legge.
Dopo che i processi di Norimberga e Gerusalemme hanno sancito il dovere alla disobbedienza contro i crimini della guerra – scrive Milani – «condannare la nostra lettera equivale a dire ai giovani soldati italiani che essi non devono avere una coscienza, che devono obbedire come automi, che i loro delitti li pagherà chi li ha comandati». Sulla base della tradizione della Chiesa sul primato della legge di Dio, della Pacem in terris e, soprattutto, della Gaudium et spes, che ha riconosciuto le ragioni degli obbiettori e invitato il legislatore a tenerne conto, Milani difende poi la propria ortodossia e rilancia la battaglia sul duplice piano della riforma della Chiesa e della società, chiamata a tenere fede a quell’art. 11 della Costituzione che utilizza in maniera quasi profetica il verbo «ripudiare».
L’autore dichiara di non voler scendere sul piano delle disquisizioni dottrinali, ma nei fatti propone una revisione profonda in piena sintonia con quei padri conciliari che hanno dichiarato ingiustificabile la guerra nucleare.
Sul terreno politico e giuridico si muove invece la condanna di quell’accusa di viltà che, in virtù delle ricerche di Peyrot (ora ricostruite da Tanzarella), Milani può dichiarare estranea allo stesso linguaggio dei tribunali militari e dunque irricevibile. Il Tribunale gli darà ragione, ma la sentenza verrà ribaltata in Appello che condannerà Pavolini, ma non il parroco di Barbiana, deceduto il 26 giugno 1967.
Il successivo ricorso in Cassazione porterà all’annullamento della sentenza di condanna perché il reato contestato era stato estinto dall’amnistia del 3 giugno 1966.
Nelle ultime battute della sua ricostruzione, Tanzarella ricorda la breve introduzione scritta da Milani, ma pubblicata in forma anonima, all’edizione delle due lettere del 1965 uscita con il titolo Il dovere di non obbedire. Questa scelta era presentata come più consona a «esprimere meglio le tesi fondamentali di queste pagine»: a più di cinquant’anni di distanza, e con alle spalle l’approvazione della legge Marcora del 1972 sull’obiezione, le lotte della Lega degli obiettori e la legge del 1998, gli interventi del magistero contro «le guerre umanitarie» e i passi avanti del diritto internazionale, possiamo pienamente dargli ragione e continuare a leggere le due lettere con lo sguardo rivolto al nostro presente di guerra e ai conflitti del futuro.
ALESSANDRO SANTAGATA
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