Un disegno neoimperialista di lungo corso e non una barzelletta

È comprensibile. Le dichiarazioni di Donald Trump sul nuovo nome da dare al Golfo del Messico (che dovrebbe diventare “Golfo d’America“), sull’occupazione manu militari della Groenladia, sull’occupazione di Panama...

È comprensibile. Le dichiarazioni di Donald Trump sul nuovo nome da dare al Golfo del Messico (che dovrebbe diventare “Golfo d’America“), sull’occupazione manu militari della Groenladia, sull’occupazione di Panama per la totale, piena gestione del suo canale e, infine, sul Canada come possibile cinquantunesimo Stato degli USA, possono lì per lì far sorridere: saranno delle boutade, delle sparate classiche di un magnate che è da sempre abituato a trattare su tutto, a mercanteggiare il prezzo di qualunque cosa e, quindi, alla fine a prendersi ciò che vuole, date le sue disponibilità economiche.

Ma bisogna fare molta attenzione, perché così potrebbe essere se l’America di oggi fosse ancora quella che abbiamo conosciuto nel corso della seconda metà del Novecento. Non è così. Quegli Stati Uniti di un tempo sono parte della Storia e non appartengono più ad un presente che si invera costantemente rifacendosi alle più (per così dire…) nobili tradizioni liberali e illuministiche del passato. Proprio negli anni Settanta del secolo scorso, che citiamo spesso come data di nascita della modernissima torsione liberista del capitale, si verificavano una serie di contingenze che dovevano far presupporre quello che oggi ci sta innanzi.

La spinta propulsiva della riconversione economica di intere aree sviluppate del pianeta sembrava essere arrivata al suo apice e pareva, quindi, lasciare il passo ad una più complessa fase globalizzatriche di cui non si comprendevano ancora del tutto le dirompenti potenzialità (soprattutto l’impatto anti-ambientale che avrebbe avuto) e che, pertanto, veniva accolta come un successivo passaggio di consegne tra gli spazi economici venutisi a creare nella Guerra fredda e un mondo in cui iniziavano a vedersi i prodromi delle grandi contraddizioni tanto del socialismo reale quanto del capitalismo tardo novecentesco.

La caduta dell’impero sovietico avrebbe accelerato l’unipolarizzazione che sarebbe seguita: per un trentennio circa, dal 1989 al 2020 circa, gli Stati Uniti d’America si sono prodotti in una politica espansionista che era la conseguenza di una riconfigurazione globale che lasciava a Washington campo larghissimo nella predisposizione di un dominio pressoché incontrastato sua una molto più ampia fetta di pianeta rispetto al Novecento e alla contesa con l’URSS. In quegli anni si archivia la spartizione dell’Europa e del mondo decisa a Yalta e si dà seguito ad una nuova era nella geopolitica mondiale.

Il trionfo momentaneo dell’unipolarismo va a coincidere con l’avvento di un liberismo che gli è congeniale e che sembra essere indiscutibile entro i termini di una vulgata più o meno quasi univoca (fatte salve alcune grandi voci critiche eredi di un marxismo antidogmatico e privo di incrostazioni di natura stalinista) secondo la quale la democrazia e il mercato sono inscindibili e, quindi, le guerre non possono altrimenti essere se non nell’accezione liberatoria di cui si vuole ipocritamente ammantarle: esportazione delle libertà occidentali, nuova colonizzazione del mondo.

Ma questa volta dal Nuovo Mondo a quello anche Vecchio, senza escludere penetrazioni in Africa, Asia e, manco a dirlo, in America Latina. Il nuovo ordine mondiale che si va affermando in quel trentennio unipolare (o presumibilmente tale) ha la necessità, date le premesse di una Russia non competitiva e di un Cina ancora non giganteggiante come oggi, di settorializzare il mondo in zone di espansione militare e finanziaria, garantendo al neoimperialismo a stelle e strisce la concretizzazione di un piano di lungo corso anzitutto fondato sull’accaparramento forzato di ogni materia prima utile allo sviluppo delle potenzialità yankee.

La fine (o per lo meno la temporanea sospensione oggettiva) del sogno unipolare della Repubblica stellata si palesa proprio negli anni in cui l’espansionismo dell’Alleanza atlantica lambisce i confini della Russia putiniana, in cui Pechino diviene un gigante economico, sociale e politico capace di contendere il primato statunitense in molti ambiti globali, in cui Mosca si riarma, si allea con molti degli antichi e più moderni avversari di Washington e, quindi, considerando il tutto nello scenario planetario che ne consegue, si va a determinare un mutamento strutturale di una economia capitalistica che, oltre ai nuovi poli di grande interesse strategico, non disegna una riconsiderazione dei nazionalismi.

L’utilità del nazionalismo, infatti, si confà alla gestione molto più diretta, perché immediatamente locale, di una vastissima serie di disagi sociali che potrebbero essere delle spine nel fianco tanto delle cosiddette “democrazie occidentali” quanto dei regimi giudicati da noi col metro indiscutibile del liberalismo di fine-Ottocento, utilizzato come specchietto per le allodole, infingardamente frapposto nelle dinamiche di politica internazionale per provare a dimostrare una presunta superiorità etica della società che sta tra gli Urali e l’Oceano Pacifico.

Facciamo attenzione però. Tutta questa modestissima analisi non punta a dimostrare il nadir degli Stati Uniti d’America: non possiamo affermare, proprio per la dimensione temporale estremamente lunga dei cicli di evoluzione e involuzione del sistema capitalistico-liberista, che Washington si trovi in un piano inclinato di inarrestabile declino. Possiamo soltanto constatare che, rispetto al sogno imperiale post-Guerra fredda, le aspettative nordamericane sono state tradite da una sistema economico che, per la propria sopravvivenza, ha cercato istintivamente, naturalmente per quanto gli concerne, i pertugi in cui infilarsi e trovare nuove vie d’uscita alle crisi che si sono manifestate.

Non ultima quella del 2008-2009 in cui l’alta finanza americana ha tremato e fatto tremare il mondo intero. Se oggi Donald Trump parla la lingua dell’espansionismo a buon mercato, senza alcun infingimento, senza pararsi dietro cortesie e galatei istituzionali, minacciando addirittura l’uso della forza per prendersi subcontinenti strategici come la Groenlandia o fare di Ottawa la capitale di uno degli Stati dell’Unione e non più quella del già vecchio dominion canadese (tutt’oggi parte del Commonwealth britannico), ciò è possibile perché la destra che ha vinto le elezioni non è soltanto un fenomeno di mero folklore.

Si tratta di un progetto politico-economico-finanziario e militare che ha come obiettivo l’esaltazione di un neonazionalismo capace di essere la culla di un consenso quasi totale nei confronti del riarmo e del rilancio della potenza statunitense in un emisfero occidentale in cui non vi siano contese tra alleati ma soltanto i dettami della Repubblica stellata e del trump-muskismo. Il nuovamente eletto presidente-magnate lo ha chiarito senza ombra di dubbio: gli Stati Uniti non sono disponibili ad essere paternalisticamente al servizio dei propri alleati: a cominciare dalle spese per il mantenimento della NATO.

Nella cruciale fase del conflitto ucraino-russo, questa minaccia di abbandono dell’Alleanza ma – si badi bene – su presupposti apparentemente di carattere economico, è chiaramente un punto di politica estera non negoziabile: il messaggio agli europei riguarda la pretesa di rappresentare ancora una politica di contenimento delle spinte nazionali. La Russia di Putin, l’America di Trump e la Cina di Xi, nella contesa di un altro nuovo ordine mondiale, sono degli ipernazionalismi che non tollerano altre forme di aggregazione se non direttamente dipendenti da loro stessi.

L’Unione Europea, in questo frangente, è, oggi ancora di più, una anomalia in una involuzione liberista coccolata per lungo tempo dalla BCE e dalle commissioni di Bruxelles e, con una inversione proporzionale allucinante, tradita in eguale misura: vincono i giganti delle congiunture transnazionali soltanto là dove c’è coincidenza tra unità politica e organizzativa di uno Stato unitamente ad una domanda del grande capitale e della grande finanza di essere rappresentati senza troppi lacci a laccioli, senza fare ricorso a complessi meccanismi di democrazia formale.

Di quella sostanziale, si intende, nemmeno a parlarne. Noi ci illudiamo di eleggere al Parlamento europeo dei rappresentanti capaci di influenzare le scelte dalla Commissione presieduta da Ursula von der Leyen ma, in realtà, i decisori sono altrove e l’indipendenza di questa Europa piena di basi NATO, di militari americani e di interessi delle multinazionali a stelle e strisce, è qualcosa di più di una autonomia formale e qualcosa di meno di una reale confederazione di Stati. C’è un vizio di forma che diviene, quindi, di sostanza, proprio all’origine del concetto di Unione, di formulazione dei trattati e di applicazione anche del diritto nei singoli paesi.

Il conflitto in Medio Oriente, poi, su cui Trump si esprime parlando di “scatenare l’inferno” (come se a Gaza e in Libano da un anno a questa parte non si stesse morendo, non vi fossero massacri indiscriminati di civili e non fosse in atto un vero e proprio genocidio da parte di Israele), è l’altro grande banco di prova di una presidenza che si preannuncia devastante per gli Stati Uniti e per il mondo. Da questo punto di vista, le relazioni tra Cina e India non sono da trascurare; anzitutto perché si sono svolte a margine delle riunioni ultime dei BRICS (allargati) degli incontri tra Xi Jinping e Nerendra Modi anticipando l’esito del voto americano.

E poi perché, visto il carattere preventivo di questi abboccamenti, il multipolarismo ormai dominante esprimerebbe in questo frangente un carattere di un allineamento tra potenze emergenti che avrebbe senza alcun margine di errore, in una valutazione più propriamente attuale, la chiara fisionomia di una dualità volta a fronteggiare l’imperialismo statunitense. La risposta di Trump è, per l’appunto, l’unificazione del Nordamerica, la risoluzione della guerra in Ucraina in breve tempo e, non di meno che da parte democratica, l’apertura ad una serie di rapporti economici con Nuova Delhi e Pechino. Ben consapevole che quest’ultima è la seconda potenza economica e militare mondiale.

Ecco che, ritornando a quanto si scriveva all’inizio di queste considerazioni, le minacce del magnate-presidente di assicurarsi il controllo di Panama, la Groenlandia e un nuovo dominion sul Canada, non sono boutade o smargiassate messe sul piatto del sensazionalismo a buonissimo mercato. Corrispondono a piani già immaginati, scritti e dettati da tempo ad una agenda in cui si postula la grandezza americana non più unipolare, ma almeno concorrenziale rispetto alla fase multipolare, per evitare di essere surclassati dalla Cina, per non vedere una ritirata delle proprie basi militari a fronte di una intromissione sempre maggiore nelle economie dei singoli paesi degli interessi cinesi.

Cina che, ricordiamolo, detiene gran parte del debito americano. Che ora spaventa i capitalisti e il governo di Pechino per la crescita del deficit interno degli USA. La svalutazione di quel capitale sarebbe un brutto affare per il paese del drago. Nel 2023 il debito pubblico degli Stati Uniti ha superato il 120% del Prodotto Interno Lordo. Demografia positiva e stabilità commerciale metterebbero al sicuro la Repubblica stellata da un crack anche di lunghissimo termine. Ma, si sa, nel capitalismo gli affari sono affari e nessuno vuole perdere un centesimo che sia uno.

Per questo Trump vuole ingigantire le risorse americane: per sganciarsi dalla dipendenza, almeno in questo caso, dalla Cina. Non sarà una impresa facile e porterà a nuove tensioni nell’area asiatica. Elon Musk pare stia scegliendo di concentrarsi di più sulla Terra rispetto a Marte. Del resto, gli interessi che ha su questo pianeta sono per lui certi. Quelli che potrebbe avere sul pianeta rosso sono tutt’altro che tali. Ed intanto, si sogna (ma nemmeno tanto) qualcosa più che in grande… Pazienza se l’instabilità globale aumenterà a tutto discapito per miliardi di povera gente.

Ciò che conta è la sicurezza che il liberismo americano possa, grazie al neonazionalismo del MAGA, floridizzarsi e far credere, ancora una volta, di essere utile per tutti il mondo. Non un sogno, ma un incubo da cui sarà molto, molto complicato uscire.

MARCO SFERINI

9 gennaio 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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