Fissata la data del 4 Dicembre, si profila così una lunghissima campagna elettorale (del resto già cominciata da tempo) che risulterà particolarmente difficile da portare avanti dalla parte del “NO” i cui esponenti si troveranno a combattere con una pluralità di avversari esterni, fuori e dentro l’Italia, in possesso di strumenti finanziari e comunicativi del tutto esorbitanti: le TV, la gran parte dei giornali, le centrali finanziarie, gli apparati di governo.
Inoltre il cosiddetto “fronte del NO” appare variegato e frastagliato con punti di debolezza interni sicuramente sensibili per un tratto così lungo alle sirene del potere: non a caso, sul terreno della legge elettorale che è strettamente connesso a quello delle deformazioni costituzionali sottoposte al voto, si stanno muovendo i consueti trasformisti, quelli che al Senato rappresentano l’indispensabile stampella del governo, allo scopo di elaborare un progetto sulla base del quale, superato l’Italikum, possa rinnovarsi il quadro dell’usato “Patto del Nazareno”.
“Patto del Nazareno” da rinnovare e da utilizzare già nella contesa del 4 Dicembre.
Questi motivi debbono indurre quella consistente parte di sinistra schierata con il “NO” ad evitare, prima di tutte, strumentalizzazioni finalizzate alla lotta interna al PD: è necessario muoversi in campagna elettorale in totale autonomia di pensiero e di azione fissando con grande chiarezza alcuni punti distintivi che consentano, superato positivamente il guado delle urne, di fissare alcuni tasselli utili alla costruzione di un soggetto politico all’altezza della sfida per l’alternativa che richiesta dalla drammaticità della situazione, sia sul piano internazionale sia interno.
Limitiamo comunque il campo d’osservazione all’elaborazione di una strategia referendaria.
Mi permetto, quindi, di riproporre – almeno parzialmente, due elaborati già resi pubblici nei giorni scorsi e afferenti quei due nodi che possono essere ritenuti dirimenti all’interno di questa vicenda:
1) Il primo riguarda la domanda: qual è la scaturigine vera di questa esigenza di riforme orientate alla sostanziale limitazione del confronto democratico e allo sbilanciamento a favore della governabilità nell’asse di riferimento del sistema politico?
2) Il secondo posto in relazione direttamente al primo: come si colloca, in realtà, nel quadro delle deformazioni costituzionali che saranno sottoposte al voto la questione dei “poteri”?
Al primo punto è possibile rispondere rispolverando i rapporti che il Governo Italiano mantiene con la grande banche d’affari JP Morgan, come appariva ieri in un articolo pubblicato dall’inserto “ Affari e Finanza di Repubblica”.
Una situazione già denunciata proprio domenica scorsa da chi scrive queste note in un articolo che si riproduce parzialmente in questa sede, scusandoci della (necessaria) ripetitività.
Ecco di seguito:
“Ricordiamo prima di tutto l’orientamento politico sostenuto da questa banca (JP Morgan) e cominceremo a capire molte cose: Report della banca d’affari statunitense, considerata dal governo Usa responsabile della crisi dei subprime: “I sistemi politici dei paesi europei del Sud e in particolare le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano caratteristiche inadatte a favorire l’integrazione. C’è forte influenza delle idee socialiste”. E cita, tra gli aspetti problematici, la tutela garantita ai diritti dei lavoratori.
Quella stessa JP Morgan, che attraverso un’operazione di “derivati” il cui costo lo stato italiano sta ancora pagando in maniera occulta senza che ciò compaia come passività nella contabilità nazionale favorì l’ingresso dell’Italia nell’Unione Europea, conta molto il governo Renzi per mettere in sicurezza il sistema bancario italiano, quello di MPS , CARIGE e Banca Etruria.
Anzi, sempre nella definizione usata dall’articolo di “Affari e Finanza”, JP Morgan è definita la “più preziosa alleata di Palazzo Chigi nelle scelte più importanti di economia pubblica degli ultimi anni”.
Naturalmente tutto ciò comporta anche l’occupazione “fisica” del potere: Marco Morelli alla guida di MPS, Matteo Del Fante ad di Terna, Giovanni Gorno già numero uno di Cassa Depositi e Prestiti, mentre Vittorio Grilli, già ministro, siede nel board della banca americana.
Grilli che, nel frattempo: “Ieri Repubblica ha confermato che i manager della banca e quattro dirigenti di via XX Settembre dovranno presentarsi alla Corte (dei Conti n.d.r). Secondo l’edizione online sarebbero Maria Cannata, attuale direttore del Debito, il suo predecessore Vincenzo La Via, Domenico Siniscalco, direttore generale del Tesoro poi passato in forze proprio a Morgan Stanley e anche Vittorio Grilli, anche lui ex direttore generale del Tesoro”.
La vicenda in questione è così riassunta : “Alcuni contratti derivati sottoscritti dall’Italia, secondo i magistrati, erano delle vere e proprie speculazioni andate male. Tanto da consentire a Morgan Stanley di guadagnare 1,3 miliardi a fronte di un esborso di 47 milioni di euro, riporta Repubblica”.
Fino a questo punto siamo di fronte a un classico delle truffe legate alla finanziarizzazione dell’economia.
E’ il caso però di approfondire due punti : quello sopra riportato riguardante il parere di JP Morgan sulle Costituzioni europee e la definizione della stessa banca d’affari come alleata di Palazzo Chigi.
Non nascono forse da questo connubio le deformazioni costituzionali approvate dalla maggioranza di un Parlamento eletto con una legge elettorale giudicata incostituzionale dall’Alta Corte?
La prima conclusione da trarre è quindi molto semplice: i veri mandanti di questo itinerario di deformazioni costituzionali sono proprio quelle banche d’affari che, attraverso il giochetto dei subprime, sono state le prime artefici di quel tipo di gestione del ciclo capitalistico che, a partire dal 2007, ha accresciuto enormemente il quadro complessivo delle diseguaglianze a livello planetario : livello di diseguaglianze intollerabili che stanno a ragione come causa principale dell’escalation bellica in tante parti del mondo con la conseguente fuga di milioni e milioni di profughi in un quadro di destabilizzazione sociale e di secco spostamento autoritario nel complesso del quadro politico internazionale”.
Il secondo punto da analizzare è quello della definizione dei poteri all’interno del sistema politico italiano, così come questo si configurerebbe se le deformazioni costituzionali sottoposte a referendum dovessero diventare effettivamente operative.
Anche in questo caso riprendo parti di un testo elaborato qualche giorno fa e già pubblicato:
“Riprendo da Felice Carlo Besostri, vera punta di diamante nello schieramento del “NO” alle deformazioni costituzionali e attore tra i principali nella fondamentale lotta sulla legge elettorale, alcune argomentazioni nel merito di un aspetto di cui si sta discutendo in questi giorni con grande intensità, in particolare dopo l’intervista dell’ex-sindaco di Milano Pisapia che ha affermato di non “vedere pericoli per la democrazia”: l’argomento è quello dell’accentramento dei poteri nella figura del Presidente del Consiglio.
Prima di tutto però mi preme riportare una frase dello stesso Besostri :”Se siete favorevoli fa parte della libertà di opinione ma non dite una mezza verità, che come insegna il Talmud è UNA BUGIA INTERA.”
Dunque andando per ordine è vero che I poteri del Presidente del Consiglio formalmente non sono toccati, ma questo avviene perché, nel pieno dell’ipocrisia dominante si diminuiscono i poteri delle altre istituzioni.
Del resto aumentano formalmente i poteri del Governo attraverso la formulazione del ballottaggio così come appare enunciata nell’Italikum (anche la K è copyright del già citato Besostri).
Questo è affermato con chiarezza nel testo, e rafforza l’altra verità che deve essere conclamata e che invece è negata dai corifei di regime, circa la stretta connessione tra legge elettorale e deformazioni costituzionali, che rappresentano un tutt’uno nella logica di privilegio assoluto della governabilità e di dispregio altrettanto assoluto della rappresentatività politica.
Dunque l’Italikum prevede – al momento – il ballottaggio (non secondo turno che è cosa diversa: in questo il programma dell’Ulivo non c’entra proprio nulla) tra 2 liste identificate attraverso i cosiddetti ” capi della forza politica”(figura che, come già il capo della coalizione nel Porcellum non esiste da nessuna parte sul piano costituzionale).
Questo significa, in pratica, una forma surrettizia di elezione diretta e di conseguenza una modifica sostanziale negli equilibri istituzionali.
Abbiamo già tante volte indicato come vero e proprio “vulnus” della democrazia rappresentativa il fatto che è possibile (anzi probabile) che il premio di maggioranza di 340 deputati (pari al 53,96% dell’assemblea) risulti, alla fine appannaggio di una lista che al primo turno raggiunga – più o meno il 30% dei voti validi.
Calcolata una percentuale di votanti attorno al 60%, così come indicano adesso come adesso i sondaggi più accreditati, si avranno all’incirca 30 milioni di voti validi.
Una lista che arrivasse al ballottaggio con il 30% assommerebbe all’incirca 9 milioni di voti (quelli attribuibili al PD in proiezione sulla base dell’esito delle più recente amministrative): quindi un partito che vale 9 milioni di voti si vedrebbe attribuito un premio di maggioranza del valore (fermi restando i 30 milioni di voti validi, ovviamente) di oltre 16 milioni di voti: un regalo di circa 7 milioni di voti.
Discorso eguale, naturalmente, in caso di successo del M5S o di una lista unitaria della destra : inoltre permane l’incognita sulla partecipazione al voto nel ballottaggio. Le esperienze in sede di enti locali indicano un calo fisiologico tra i due turni e non si prevede, come in Francia, una validità del voto in relazione ad una percentuale riguardante gli aventi diritto e non i voti validi (regola in vigore Oltralpe per il passaggio dal primo e il secondo turno dei candidati nei collegi che debbono raggiungere, nel primo passaggio, il 12,5% proprio degli aventi diritto).
Risultato finale su questo punto: avremo un’elezione diretta mascherata di un Presidente del Consiglio espresso da una lista la cui maggioranza in Parlamento scaturirà da un regalo di circa 7 milioni di voti (su circa 30 milioni di voti validi, il 23%).
Ne sortiranno due effetti ben precisi: il primo è quello dell’oggettiva inversione di ruoli tra Presidente della Repubblica (eletto per via indiretta dal Parlamento) e il Presidente del Consiglio (eletto direttamente attraverso l’ipocrita formula del “capo della lista”). Inversione di ruoli che avviene senza mutamenti formali.
Il Presidente del Consiglio eletto in questo modo usufruirebbe, inoltre, della facoltà di approvazione a data fissa dei ddl autodefiniti essenziali e la possibilità sempre su iniziativa del Governo di deliberare in materie non comprese nella sua competenza esclusiva.
In primo luogo, riconosce all’esecutivo una corsia privilegiata, ovvero il potere di chiedere
Che un disegno di legge indicato come essenziale per l’attuazione del programma di governo sia iscritto con priorità all’ordine del giorno della Camera e sottoposto alla pronuncia in via definitiva della stessa entro il termine di settanta giorni dalla deliberazione, ulteriormente prorogabili per non oltre quindici giorni (istituto del voto a data certa).
Da questo itinerario sono escluse le leggi bicamerali, le leggi elettorali, le leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali, le leggi che richiedono maggioranze qualificate (artt. 79 e 81, comma sesto, Cost.).
L’esito concreto di questa vicenda, se prevarrà la conferma delle deformazioni costituzionali e sarà applicato l’Italikum nella versione “ballottaggio”, presenterà almeno 3 aspetti certi : un “presidenzialismo” dell’esecutivo in forma mascherata; una subordinazione di fatto del Presidente della Repubblica; una limitazione, di fatto, del ruolo del Presidente della Camera e della conferenza dei capigruppo nella potestà di redazione del calendario d’Aula.
Conclusione su questo secondo punto: ci apprestiamo così ad uscire, melanconicamente e dolorosamente, dalla Repubblica parlamentare disegnata dall’Assemblea Costituente con lo scopo prioritario di evitare il ritorno del fascismo.
Pericolo più che mai incombente se guardiamo sia alle dinamiche interne, sia a quelle in atto nell’Unione Europea e che gli attenti guardiani dell’austerity non solo tollerano ma incoraggiano con le loro disastrose politiche.
Tornando comunque al caso italiano :La centralità del parlamento cederà così il passo al personalismo, alla concentrazione dei poteri, al propagandismo spicciolo, all’incultura politica, alla dittatura di una maggioranza costruita artificialmente.”
Dunque tanto per fissare con chiarezza:
1) I veri mandanti di questo perverso itinerario di deformazioni costituzionali sono proprio quelle banche d’affari che, attraverso il giochetto dei subprime, sono state le prime artefici di quel tipo di gestione del ciclo capitalistico che, a partire dal 2007, ha accresciuto enormemente il quadro complessivo delle diseguaglianze a livello planetario : livello di diseguaglianze intollerabili che stanno a ragione come causa principale dell’escalation bellica in tante parti del mondo con la conseguente fuga di milioni e milioni di profughi in un quadro di destabilizzazione sociale e di secco spostamento autoritario nel complesso del quadro politico internazionale”
- La centralità del parlamento cederà così il passo al personalismo, alla concentrazione dei poteri, al propagandismo spicciolo, all’incultura politica, alla dittatura di una maggioranza costruita artificialmente.”
Per concludere: all’interno di quale quadro generale si svolgerà il referendum?
Per ben due volte nel giro di vent’anni chi si occupa dell’analisi al riguardo delle dinamiche del sistema politico italiano si è mosso sulla base di un abbaglio, dal quale sono scaturite situazioni imbarazzanti e molto negative per il nostro Paese e per il quadro complessivo delle sue relazioni internazionali.
Due casi clamorosi: quelli dell’avvento alla presidenza del Consiglio di Berlusconi nel 1994 (presidenza poi intervallata in più di un’occasione come sappiamo fino al Novembre 2011) e quello, riguardante lo stesso incarico di Matteo Renzi a far data dal 2014.
Entrambi questi frangenti furono catalogati come frutto dell’accentuarsi del processo di personalizzazione della politica (esito mortale del referendum Segni – Occhetto del 1993 sul sistema elettorale) che aveva portato alla guida del Paese uomini del “fare” che avrebbero buttato per aria il vecchio sistema sostituendolo con il pragmatismo e l’efficienza.
Pragmatismo ed efficienza che reclamavano gran parte degli italiani in una situazione dominata dalle difficoltà economiche, dalla crescita delle disuguaglianze, da vasti fenomeni di corruzione.
Al secondo passaggio contribuì fortemente, promuovendo alcune operazioni al limite della legalità repubblicana il presidente della Repubblica Napolitano, ormai definitivamente convintosi della necessità di inserire una forte dose di autoritarismo nel processo di riduzione dei margini di esercizio della democrazia, come richiesto da un presunto allineamento all’Europa dei banchieri e delle grandi lobbie che detengono il potere a Bruxelles e Francoforte e dalle pressioni delle grandi banche d’affari intestatarie della gestione del ciclo capitalistico portato avanti in chiave puramente speculative e le cui ricette, tra l’altro, si stanno rivelando clamorosamente fallimentari.
Non c’è stato pragmatismo ed efficienza nelle gestioni Berlusconi e poi Renzi, condite entrambi da una politica – spettacolino molto provinciale .
Intanto il punto vero che accomuna le due disgraziate gestioni (a differenza, in verità, di quelle pur negative dei governi Prodi, Monti Letta. Mentre per quello D’Alema restano aperti due grandi dossier: quella relativo alla Bicamerale e quello riguardante i bombardamenti sulla Jugoslavia nel 1999) è stato quello dell’attacco alla Costituzione Repubblicana: respinto dal voto popolare quello portato da Berlusconi, da respingere seccamente nello stesso modo quello portato da Renzi.
Una gestione del Paese, quello dei governi succedutisi tra il 1994 e il 2016, davvero disastrosa.
Ma c’è dell’altro: in realtà ciò che è accaduto di analogo nelle due “gestioni” è stato l’avvento di fameliche orde di “parvenu” assetati di potere, pronti a spartirsi le spoglie, dalla gestione delle grandi utilities, alle banche, ai più diversi centri di potere.
In entrambi i casi all’insegna del “nuovo”.
Via, via è andato così definitivamente in pezzi l’intero sistema politico, si sono dissolti i partiti, ridotta al minimo storico la credibilità delle istituzioni con esiti molto negativi sul piano economico – sociale.
E’ aumentata a dismisura la disaffezione rispetto all’impegno politico delle cittadine e dei cittadini anche soltanto per il semplice atto della partecipazione al voto, scesa da oltre l’80% a meno del 60%.
Sul piano più strettamente politologico c’è ancora da ricordare come l’esito di questa avventura abbia, ovviamente, frantumato il tentativo (che pure era stato svolto) di costruire un quadro bipolare all’interno del sistema politico: questi brillanti interpreti della politica – spettacolo non si sono accorti che si stava costruendo una situazione diversa, dando spazio a soggetti costruiti per “l’interdizione del sistema”.
Tutto ciò avveniva mentre la sinistra si consumava in una posizione di retroguardia ancora assunta all’insegna di categorie ormai superate sia sul piano delle contraddizioni sociali, sia delle dinamiche di sistema.
Nella loro assurda vanità e cecità di potere i corifei del governo Renzi hanno anche pensato a un sistema elettorale (convinti della loro invincibilità) che finisce con il favorire questo potere d’interdizione, a scapito della loro tanto decantata “governabilità”, ma soprattutto cancellando il dato essenziale della rappresentatività politica.
Intanto si scivola verso una sorta di “dissoluzione civile” all’interno della quale emergono retaggi fascistoidi non propriamente secondari: un nazionalismo d’accatto molto simile a quello del colonialismo straccione degli anni’30 del XX Secolo, addirittura il varo di una politica di crescita della natalità degna dell’Opera della Madre e del Fanciullo nella quale emerge un incredibile ritorno del ruolo della donna a quello di “fattrice” delle future 8 milioni di baionette, l’assoluta incapacità di affrontare i temi decisivi della politica internazionale e delle sue conseguenze (in primis il tema dei migranti), il favorire una visione del lavoro tutta incentrata su di una costruzione dell’offerta in un senso fortemente accentuante i termini di sfruttamento e precarietà per le lavoratrici e i lavoratori già insistiti per tutti gli anni ’90 e primi ‘2000 favoriti anche dalle politiche del centro sinistra, l’annullamento delle autonomie territoriali.
Un paese in mano, per buona parte del territorio in mano alla criminalità organizzata (che del resto esercita la sua potenza economica anche ben al di fuori dalle zone di suo tradizionale insediamento), e alla corruzione politica.
Questo il quadro, riassunto sinteticamente, alla vigilia del referendum: poche righe, in sostanza, per fornire un quadro più che sufficiente al fine di esprimere un voto consapevole a favore del “NO”, chiaro e tondo, ben motivato da parte di una tensione alternativa da sinistra.
“Tensione” e non di più perché dal punto di vista politico e organizzativo la sinistra non esiste ed è tutta da ricostruire: ci sono le buone ragioni, ma mancano i frati e i conventi per ospitarli.
FRANCO ASTENGO
redazionale
28 settembre 2016
foto tratta da Pixabay