Un cavo di metallo tra modernità e decadenza morale

Giorni fa, un ventiquattrenne milanese, insieme ad altri due ragazzi che, forse, sarebbe già opportuno chiamare almeno “giovani uomini“, ha teso un cavo di acciaio in una trafficata strada...

Giorni fa, un ventiquattrenne milanese, insieme ad altri due ragazzi che, forse, sarebbe già opportuno chiamare almeno “giovani uomini“, ha teso un cavo di acciaio in una trafficata strada a tre corsie del capoluogo lombardo. Dal tronco di un albero ad un palo dalla parte opposta della via. Poteva causare la morte di motociclisti, anche di persone in automobile, di ciclisti, di rider, di chiunque si fosse trovato su quella traiettoria e, inaspettatamente, avesse impattato contro l’ostacolo imprevisto.

Il giovane, arrestato, ha detto di essersi pentito del gesto, di averne compreso la gravità. Ma troppo tardi. Sempre troppo tardi, perché a posteriori siamo tutti in grado di capire ciò che sarebbe potuto accadere.

E’ prima di compiere un’azione tanto scriteriata che si dovrebbe avere il senso del limite da non oltrepassare, il confine tra giusto e ingiusto, tra lecito e illecito. Si tratta di una osservazione etico-sociale che ha dell’antropologico, per certi versi, perché affonda le sue radici agli albori dell’umanità.

Ma, se per gli eventi di grande portata apriorismo e aposteriorismo contano fino ad un certo punto e, in pratica, tutto viene giustificato seguendo ora la ragion di Stato, ora le convenienze di questo o quel popolo in un dato contesto economico, sociale e civile, quando si cade dall’alto in basso e la miseria delle azioni riguarda il singolo che non ha proprio nessuna giustificazione per la gratuitissima cattiveria che mette in pratica, allora le domande sul comportamento di ciascuno di noi si fanno ancora più pressanti.

Molto tempo fa, quando si passava sotto ad un cavalcavia autostradale, si sbirciava in alto per vedere se ci fosse sopra qualcuno pronto a lanciare dei sassi contro le auto e i camion che passavano.

Al pari del ventiquattrenne milanese e dei suoi due amici conosciuti sui social, i ragazzi e le persone che prendevano dei pietroni grandi e li gettavano sull’autostrada, causando la morte degli automobilisti, riferivano alla polizia, ai carabinieri e poi ai giudici che lo avevano fatto per noia.

Questa era la frase ricorrente: non sapevano che altro fare e, quindi, si dicevano che lanciare sassi da un cavalcavia sarebbe stato elettrizzante, adrenalico e avrebbe sconfitto quel torpore di una quotidianità in cui loro non trovavano di meglio per esprimere la loro compiuta impersonalità se non scaraventare dei veri e propri massi contro chi lavorava su un camion, chi stava in sella ad una moto, oppure chi andava in vacanza con la famiglia.

Le conseguenze di quei gesti, considerati troppo spesso superficialmente delle bravate, delle ragazzate, erano feriti, morti, lutti, pianti disperati di persone che non avrebbero mai potuto veramente dare un significato alla fine dell’esistenza del proprio parente, di chi gli stava accanto fino a pochi attimi prima ed era morto perché un gruppo di ragazzi aveva deciso in quel preciso istante, quel preciso giorno, di andare sopra un cavalcavia e sfidare l’impossibile, emulando le partite dei videogiochi dove, però, gli altri muoiono solo per finta.

Poi, mentre la moda delle pietre dai cavalcavia stava trovando sempre maggiori disincentivi grazie alla infausta popolarità che aveva creato, altri giovani, ed in alcuni casi anche quasi adulti, presero a divertirsi, sempre a scacciare la noia, ponendo delle pietre sulle rotaie dei treni, facendone deragliare qualcuno.

All’inizio si pensò a delle sorte di attentati alla rete ferroviaria, a qualche banda criminale che volesse ricattare qualcuno, ad atti di terrorismo. Ma la soluzione dell’enigma era purtroppo molto più banale ma non per questo meno inquietante e grave.

Si trattava sempre di gruppi di giovani che volevano provare il brivido, l’emozione del disastro, dell’eccesso oltre l’eccesso stesso, del disastro che fa un rumore assordante, che irrompe nella sordità delle loro esistenze e che le fa sobbalzare per un attimo così come le droghe fanno sballare, portando chi le assume al di fuori dello spazio e del tempo in cui si sopravvive.

Così come l’alcol consente l’inebriamento, l’estraniazione dai propri turbamenti, dai problemi che sovrastano le possibilità, le capacità, le volontà oppresse dal peso di vite a volte invivibili, altre volte proprio spezzate.

Ma, se le sostanze stupefacenti e gli alcolici sono per lo più un modo di evasione singolare dalla propria intima e tormentata sofferenza che, certo, coinvolge chi ci sta intorno e provoca disagi non da poco, prendere un cavo di acciaio e tenderlo perpendicolarmente in una trafficatissima via milanese o lanciare pietre da un cavalcavia sono atti rivolti direttamente e volontariamente contro altri, contro un mondo considerato tedioso, insapore, incolore, privo di stimoli che permettano di superare minuto dopo minuto, ora dopo ora, giorno dopo giorno.

Colpisce l’età: ventiquattro anni. Non siamo in presenza di ragazzini che, per quanto inseriti nella maturità autogestibile di una modernità che fornisce l’universalità del sapere praticamente ad ogni angolo di strada, ad ogni schermata di tablet, telefonino e computer.

Qui ci troviamo innanzi ad adulti che dovrebbero già avere un posto nella società, un loro ruolo: se non di lavoratori quanto meno di studenti, di persone che hanno superato l’adolescenza e, quindi, anche il momento della vita in cui possono convivere serio e faceto senza distinzione, senza che vi sia una netta separazione tra le due facce del carattere.

Nel bambino il gioco è l’espressione dell’incontro tra fantasia e realtà. Nel ragazzo il divertimento inizia a sviluppare anche un certo piacere nel fare qualcosa che induce a provare quelle sensazioni più volte e, quindi, si inizia a sperimentare il proprio carattere evolutivo, la propria capacità di pensare, di immaginare e di tradurre il tutto in sensazioni che dovrebbero aprire la porta alla maturità, alla consapevolezza di ciò che diviene la nostra strada nella vita.

Nell’adulto, purtroppo, la fantasia ludica del bimbo e la scoperta adolescenziale del divertirsi lasciano il posto a tutta una serie di calcoli, di opportunità e di paradigmi pragmatici che limitano il nostro vero io e lo frustrano.

La nostra vera essenza, nascosta in noi, quella che di giorno in giorno ci fa essere ciò che siamo anche se non ne siamo direttamente consci (per questo si chiama “inconscio“), lavora prescindendo dalla nostra volontà. Ma noi, spesso, le impediamo di realizzarsi e di realizzarci e, quindi, proprio da qui nascono le repressioni che ci imponiamo.

Sono le convenzioni sociali, umanissime e per questo criticabilissime e deprecabili, ad imporci modelli di vita che non corrispondono alla nostra specificità unica.

Sono questi schemi ripetitivi dell’uniformità a mortificare anche la più giusta e naturale propensione ad una uguaglianza economica o, per meglio dire, ad una giustizia in tal senso, che ci consentirebbe di avere meno pesi mentali da addebitarci costantemente, aggravando la mente di pensieri che divengono ciclicamente oziosi e in cui quella noia già più volte evocata la fa da padrona.

E se non è la noia, allora è la rabbia a dominare le nostre vite. L’insoddisfazione è un cumulatore di energia negativa, una pila carica che poi esplode: mancanza di mezzi materiali per vivere, confronti e raffronti tra la propria condizione e quella altrui, consolandosi sempre e soltanto con le disgrazie peggiori rispetto a quelle che si sopportano, invidia, gelosia, voglia di avere di più per essere accettati nel gruppo, nella comunità, nel quartiere come nella scuola, come al lavoro. Da tutto questo non viene mai nulla di buono.

La consapevolezza del limite così si appanna, diventa un retroscena trascurabile, una quinta invisibile nel teatro tragico di eventi dove si deve mostrare la propria scaltra destrezza. Ricordate i ragazzi che mettevano video su You Tube, guadagnando anche delle ragguardevoli cifre mensili in migliaia e migliaia di euro, il cui scopo era mettere in scena sfide estreme?

L’ultima a Casal Palocco, quella che causò la morte di un bambino, fu la follia della Lamborghini lanciata in pieno centro ad oltre cento chilometri orari. L’utilitaria su cui viaggiavano il piccolo Manuel e la madre non ebbe scampo.

Il limite del lecito, del giusto, dal fattibile anche e soprattutto nel divertimento e, pure, nella legittima aspirazione a diventare famosi grazie a dei video postati su Internet, non esiste più nel momento in cui la sfida con sé stessi è data per scontata e il pericolo per gli altri appare un accidente lontano, qualcosa che non si verificherà mai.

Il giovane milanese che ha teso il cavo di acciaio lo ha detto e ripetuto davanti al magistrato: non voleva fare del male, non pensava di fare del male, non voleva uccidere. E’ pentito. Troppo facile, così. Ma, del resto, senza volerlo minimamente giustificare (ed è necessaria una pena ragguardevole per una sconsideratezza di questa natura), bisogna considerare che immaturità così allucinanti sono il prodotto di un mondo in disfacimento morale perché, soprattutto, in decostruzione sociale e comunitaria.

L’assenza di empatia in questi frangenti è talmente evidente da far considerare il suo contraltare come il riempitivo del vuoto creato da una società esasperatamente individualista, dove conta solamente un arrivismo senza alcun freno, dove il successo è tutto e dove la compartecipazione delle emozioni è considerata debolezza e rassegnazione.

Ma la generalizzazione è sempre sbagliata. Sempre. Per questo vanno sempre ricercati gli esempi positivi rappresentati da quei tantissimi giovani che hanno la possibilità anzitutto di studiare e di crescere in contesti in cui ci si confronti senza per forza mettersi in contrapposizione.

Anche se questa possibilità, per l’appunto, essendo tale non è propriamente un diritto costituzionalmente garantito, come invece dovrebbe essere: è un affidarsi alle circostanze tra chiaroscuri, tra zone troppo accecanti di bagliore e zone troppo scure e impenetrabili.

E’ in questi opposti che sedimenta l’incoscienza, l’immaturità di un ventiquattrenne che si pente solamente perché è in potere di qualcuno a cui non può sfuggire, nelle mani dello Stato che lo deve allontanare dalla comunità per preservarla, apparentemente, da un potenziale assassino. Potrebbe essere così, ed invece finisce con l’essere un palliativo, una toppa messa soltanto dopo che il fatto è avvenuto e che, per esclusiva fortuna e fortuità, non  ha causato una strage.

Quel giovane è la rappresentazione fisiognomica di ciò che siamo, in larga parte, oggi: annoiati da un presente che ci ha atomizzati, separati gli uni dagli altri e che ha disincentivano la partecipazione. Dalle associazioni culturali ai sindacati, dai partiti ai comitati. Dove c’è lotta comune, c’è riconoscimento del valore dell’altro e del suo essere pari a noi. Dove invece tutto questo è assente, c’è il rampantismo del mercato, della concorrenza, della competizione senza limite.

Senza limite, appunto. Senza limite alcuno. Dove l’unico confine è quel drammatico cavo di metallo tirato ai bordi di una strada.

MARCO SFERINI

6 gennaio 2024

Foto di Lennart Wittstock

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