Mi è piaciuto e mi piace guardare i mondiali di calcio. Sono un mediocre tifoso per quanto riguarda altri tornei, ma il campionato dei campionati mi emoziona: sarà un retaggio di mazzinianesimo che mi spinge a vedere la competizione con quello spirito di fratellanza universale che dovrebbe ispirare i popoli; sarà che rivedo a volte le scene di quei “Giochi senza frontiere” voluti dal generale De Gaulle dopo la tragedia bellica della Seconda guerra mondiale proprio per riavvicinare gli europei gli uni con gli altri.
Insomma, sarà un po’ tutto questo e forse anche altro, ma, nonostante la nazionale italiana non sia stata presente a Russia 2018, di volta in volta ho trovato una squadra su cui poggiare una attenzione particolare: a volte per mera simpatia, altre volte per la presenza di questo o quel giocatore, per l’emozione che regala con la sua bravura.
Ed è appunto su ciò che bisogna forse riflettere uscendo dai luoghi comuni e dalle domande banali, retoriche e scontate: una squadra compera un giocatore affermatissimo, una icona della destrezza, della capacità in campo. Un vero idolo. Muscoloso, abbronzato, bello, dinamico: un campione, in poche parole.
Lo paga tanti di quei milioni di euro che è quasi impossibile scriverne la cifra. Scomposto, il suo “stipendio” è tale che per ogni giorno di vita, d’ora in avanti, guadagnerà circa 84.931 euro (spalmati su un intero anno solare). Insomma, più di trenta milioni di euro all’anno.
Andare ad un telequiz diventa irrilevante, giocare alla lotteria di capodanno una bazzecola. Guadagnarsi da vivere in un call center, al confronto, è un affronto, un insulto. O forse, più semplicemente, è frutto dei rapporti di classe.
Dice… ma vuoi mettere la politica proprio dappertutto: errore! E’ la politica che è ovunque. E poi questa non è proprio politica ma, semmai, “economia politica”: studio delle dinamiche di un sistema capitalistico che tutto fa merce e tutto in merce trasforma se non lo è o è ritroso nel diventarlo.
Così il “calciomercato”, che non è certo una novità, è per l’appunto questo: uno sport associato alle trattative economiche delle varie squadre che non sono semplici squadre ma investimenti finanziari di alta quota per i padroni che le hanno acquistate. Sono affari. Il calcio viene valorizzato in virtù del profitto che può rendere.
I giocatori hanno un valore etico e ludico per ciò che sanno produrre e questi valori devono essere quantificati, altrimenti perderebbero di importanza. Così funziona nel capitalismo.
Intorno a questo mondo imprenditoriale gira poi il grande indotto delle scommesse, delle rovine e dei guadagni, del cadere sul lastrico per puntate sbagliate, del diventare ludopatici, prigionieri di una ossessione che non ti abbandona perché devi poter riguadagnare il sempre più ampio bacino di soldi che hai perso poco prima.
A ben vedere, di etico c’è poco. Ma dietro ogni merce prodotta dal capitale non c’è etica: sono etici i cellulari prodotti con i minerali estratti dai bambini schiavizzati in Africa? Sono etici i palloni da calcio (per l’appunto!) cuciti dai ragazzi pakistani e indiani?
Sono etici i tessuti che comperiamo e che vengono tinti con colori tossici le cui esalazioni entrano nei polmoni dei lavoranti cinesi in grandi capannoni in quel di Prato?
Sono etici i palazzi costruiti senza piani regolatori, senza alcuna minima sicurezza nei cantieri, dove si impiegano operai e manovali ultrasessantenni?
Niente è etico nel capitalismo. Persino la bellezza è merce: la bellezza dell’arte costretta ad assumere tratti borghesi quando viene commissionata dal medioevo ad oggi per sfruttare le qualità di un pittore o di uno scultore e toglierlo dall’indigenza; la bellezza di un assist di un calciatore, di una prodezza in sveltezza, il suo slancio verso la porta avversaria.
Costa anche quello, anche se sembra gratis.
Non si sfugge alla logica delle merci. Ci si è immersi fino ed oltre il collo. Dunque si hanno due scelte: fare i duri e puri e vivere in una sorta di comune agricola e selvatica come i figli dei fiori degli anni ’60 e ’70 oppure decidere di accettare il compromesso di servirsi di ciò che il capitalismo produce per provare a combattere il capitalismo stesso.
La prima scelta è simile a quella di chi si chiude in convento e trova la pace universale lì dentro nel svolgere opere che possono anche interessare il mondo ma senza entrare troppo in contatto col mondo esterno.
Le seconda scelta è tutta una sofferenza: non dirò “mai una gioia”, ma certamente molto poche.
Tuttavia, per fare politica, per diventare noi stessi dei “politici” nel senso più vero e nobile del termine, occorre sporcarsi le mani (nel senso nobilissimo della locuzione): impegnarsi, dedicare del tempo della nostra vita ad una causa che sia quella del miglioramento delle condizioni di vita degli sfruttati unitamente al provare a costruire le condizioni per far prendere coscienza a sempre più moderni proletari che lo sfruttamento esiste, che il sistema delle merci è sfruttamento bieco e che nessun padrone si fermerà mai dall’esercitare le prerogative e i privilegi che avuto per diritto di successione.
Lo spiegava bene Engels facendo riferimento alle lacrime e sangue dei lavoratori spremuti fino all’ultima goccia di entrambi i liquidi biologici.
Ciò che importa è avere coscienza critica: sapere che guardiamo i mondiali di calcio, che sono un prodotto economico prima ancora che sportivo e che, forse, il socialismo del futuro (semmai ci sarà…) servirà pure a questo: a mettere davanti a tutto le qualità di ognuno di noi. Anche quelle calcistiche, perché un gran goal sia un gran goal e non semplicemente un punto di calcolo per l’aumento delle quotazioni di borsa del calciatore che l’ha appena realizzato.
MARCO SFERINI
foto tratta da Pixabay