Nel 2020 il prodotto interno lordo (Pil) crollerà dell’8,3%. è la stima dell’Istat nelle «prospettive sull’economia italiana” pubblicate ieri. È una stima inferiore rispetto alla forbice indicata la settimana scorsa dal governatore della Banca d’Italia nella sua relazione finale dove ha ipotizzato uno scenario peggiore con un Pil che oscilla tra un meno nove e un meno 13 per cento. La situazione è in evoluzione, l’incertezza provocata dall’inedito blocco parziale delle attività produttive per più di due mesi ha sfiancato la corsa zoppicante di un’economia che era già in stagnazione prima del Covid.
Nelle stime prospettiche dell’Istat c’è una ripresa a «V», ovvero un crollo drammatico seguito da una ripresa vertiginosa che inizierà già nel secondo semestre 2020. Non diversamente da altre stime, comprese quelle fatte dal governo nel Documento di Economia e Finanza (Def), anche in questo caso è previsto un «rimbalzo» del 4,6%. L’Istat lo definisce «ripresa parziale». La stima sembra più un auspicio che una tendenza, per ora.
Dalla lettura del rapporto emerge un fenomeno che ha arrestato, come mai prima di oggi, il meccanismo dell’accumulazione capitalistica. È stato prodotto da un’interruzione volontaria delle attività per impedire la diffusione del contagio del virus. Le conseguenze osservate sono al momento catastrofiche. L’Istat parla di uno «shock senza precedenti» che ha «determinato un impatto profondo». Nei prossimi mesi si tratterà di capire se lo «choc» in questione porterà a una ripresa capace di evitare una depressione pluriennale. Per il momento è confermato un dato già emerso nelle rilevazioni delle ultime settimane.
Il «lockdown» ha cancellato l’offerta di lavori ultraprecari al punto da avere spinto, per evidenti ragioni (erano costrette in casa) 500 mila persone a non cercare nemmeno un’occupazione. E come avrebbero potuto, del resto? Questo dato fotografa la situazione del trimestre precedente e spiega anche la ragione della diminuzione della disoccupazione al 9,6%. In queste statistiche il disoccupato è considerato ancora parte di un mercato del lavoro, in quanto «non lavoratore». Il mezzo milione di «inattivi», questa è la definizione tecnica usata dall’Istat, non rientrano nemmeno tra i disoccupati, sono fuori dal «mercato» della vendita della forza lavoro a condizioni sempre peggiori con salari da fame. Vivono in una zona tra la povertà, l’anomia sociale e il precariato.
La crisi, oggi, ha annientato i canali del tutto informali e comunque singolari attraverso i quali un inoccupato cerca in Italia un lavoro nel periodo della rilevazione statistica e, per questa ragione, non è più «inattivo». Lo può ridiventare subito dopo. Non è escluso che, tra qualche mese, le persone fuori da ogni possibile occupazione aumentino ancora. La fede cieca nella «ripartenza» degli automatismi inesistenti di un mercato ha obnubilato il governo che ha predisposto solo una rete di bonus occasionali, non ha riformato in senso universalistico gli ammortizzatori sociali, né esteso senza vincoli né condizionalità il cosiddetto «reddito di cittadinanza». Sarà questo il suo principale contributo all’esplosione della vera crisi sociale tra l’estate e il prossimo autunno.
L’esecutivo si consola al momento con «alcuni primi segnali di ripresa in linea con il processo di riapertura delle attività», così si è espressa l’Istat per il mese di maggio. Ciò dovrebbe portare sollievo alla caduta dei consumi delle famiglie (-8,7%), al crollo degli investimenti (-12,5%). L’Italia non è ancora nella fase post Covid ma «cerchiamo di vedere una luce in fondo al tunnel» ha detto il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri. Il paese spera anche che quella luce non sia un treno.
MARIO PIERRO
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