Prima e dopo l’innatismo delle idee si situa quella che non è propriamente una parentesi empiristica, semmai una dottrina della conoscenza che ripropone non tanto la modestia di una razionalità che ammette i propri limiti, quanto la consapevolezza di questo semplice, elementare, autoevidente fatto.
Ci troviamo nel bel mezzo di fatti rivoluzionari, ancorché legati a restaurazioni monarchiche nell’Inghilterra di fine Seicento. Dopo la clamorosa interruzione della discendenza reale con la Guerra civile tra Carlo I e il Parlamento, anche il mondo della cultura è in fermento: il puritanesimo ha dato alla politica ed alla società una impronta di severa austerità e, al contempo, con la decade di governo cromwelliano, ha fatto dell’imprendibile isola di re Artù una potenza europea e mondiale.
Il mondo della dialettica mentale è, come avrebbe scritto Engels qualche secolo dopo, rispecchia più o meno la dialettica che c’è nel mondo stesso: la nostra capacità di elaborazione delle idee è direttamente proporzionale a quanto accade intorno a noi e, pertanto, la relazione tra la struttura economica e le sovrastrutture generate dal nostro sentire interiore (animo, psiche, mente, si scelga pure il termine che più si ritiene consono) sono sempre più evidenti.
Se per Platone un po’ tutto quello che pensiamo e che mettiamo in pratica procede dall’anamnesi come processo di reminiscenza, per cui le idee innate si affacciano in noi nel momento in cui veniamo direttamente a contatto con la realtà fenomenica e ci rendiamo conto che sono esse stesse una “realtà“, qualcosa che vive altrove, oltre il nostro mondo “sensibile“, è con Cartesio che il concetto di “idea” cambia radicalmente. Diviene il “contenuto” del pensato.
Del resto, Platone si riferisce alle idee nel vero e proprio senso etimologico del termine. Che derivi da εἶδος (“eidos“, “modello“, “forma“, poi mutato in “idolo“, “simulacro“) o più facilmente da ἰδέα (“idea“), ossia nella proprietà specifica dell’essere vivente di “vedere“, di scrutare la realtà, è innegabile che il concetto sia propriamente connesso all’osservazione. Farsi una idea, ancora oggi, vuol dire immaginare qualcosa in un determinato contesto.
Quindi, vuol praticamente significare tracciare mentalmente i contorni di una figura che può riguardare tanto un luogo, quanto un tempo, presente, passato o futuro, oppure una persona, un animale, una pianta, una cosa. In quell’epoca di rivoluzioni in Inghilterra, John Locke si divide tra l’ascesa al trono di Guglielmo III d’Orange e una nuova descrizione dell’empirismo come filosofia della ragionevolezza della e sulla ragione stessa.
L’iperuranio platonico è, per antonomasia, l’antitesi esplicita dell’acquisizione di una conoscenza mediante l’esperienza. Quindi nulla è più lontano da Locke dell’innatismo dell’aristocratico filosofo ateniese. Tuttavia, se è legittimo mettere innatismo e nuovo empirismo lockiano atli antitesi su un piano di mera relazione tra interpretazioni della realtà e della sua estrinsecazione dialettica senza soluzione di continuità, è pur vero che il dualismo platonico non va frainteso.
Il mondo del sensibile, quello che noi percepiamo con i nostri sensi, è per Platone il livello conoscitivo di base, quello della percezione mediante il nostro confronto con la realtà. Il mondo intelleggibile, quello per l’appunto delle idee, è, a differenza di quello che afferma Locke, un non-luogo che sfugge alla nostra percezione e in quel luogo immateriale che va al di là del cielo, stanno per l’appunto le forme prime di ciò che noi traduciamo qui in terra come idee, concetti, da associare a ciò che ci circonda.
La distanza tra Locke e Platone, dunque, non è tanto sulla sensibilità dell’esistenza, quanto sulla traduzione dell’idealità in una realtà oggettiva che ci sfugge e che, nello stesso tempo, siamo in graddo di apprezzare mediante la “forma” che discende dall’iperuranio fino a noi tramite l’innatismo.
Se ogni nostra conoscenza deriva dall’esperienza e se la nostra mente è un “white paper“, un vero e proprio foglio bianco, risulterà alla fine ovvio, e chiaramente razionale per quanto riguarda il metodo intrinseco alla nostra capacità di analisi interiore ed esteriore, che non possiamo arrivare alla soluzione riguardo tutti i problemi che noi viviamo come tali e che concernono l’Universo, quello che fino ad allora la filosofia ha chiamato “anima” e la relazione con il divino.
Il dibattito si fa piuttosto interessante se confrontiamo il metodo conoscitivo di Locke con quello di Cartesio e con quello di Bacone. Dalla sperimentazione alla logica matematica, sempre in un ambito comunque scientifico, i filoni in cui dirama la critica dell’acquisizione del sapere mediante l’osservazione della realtà, della natura e delle interazioni che possiamo supporre tra idea e concretezza, tra pensiero e sensibilità materiale, sono vere e proprie nuove conquiste per la sintetizzazione di un metodo che ci avvicini al perché possiamo sapere e fino a che punto.
Il “pessimismo gnoseologico” di Locke che esclude l’innatismo delle idee come principio conoscitivo universale, è attraversato dalla critica, in questo senso, che espressamente si rivolge alla uniformità dei concetti, valevoli per chiunque, in un qualunque luogo delle Terra. Il filosofo inglese osserva, infatti, che, cambiando i meridiani e i paralleli, la morale cambia da popolo a popolo e, dunque, l’idea di bene che possono avere gli europei è diversa da quella che possono avere gli africani o gli americani.
Anche i concetti metafisici come quello di Dio hanno, da nord a sud e da ovest ad est del mondo, in comune solamente il nome, ma le differenze religiose sono talmente evidenti che è impossibile affermare la presenza nell’essere umano di una sola idea della divinità nell’essere umano. Se l’innatismo coincide inevitabilmente con l’unicità dell’idea riferita ad una realtà terrena, ne concludiamo che questa idea, di per sé non può esistere.
Del resto, innatisti e neoplatonici teorizzavano la presenza delle idee mai nate, ma da sempre presenti i noi, come un prodotto di Dio medesimo che le avrebbe poste nell’animo umano (o nell’anima). E qui Locke segna un’altra importante cesura con la rappresentazione anche solamente figurativa del concetto di interiorità, di introspezione, di autocoscienza e di rapporto tra presenza e impresenza di noi stessi e verso noi medesimi.
Al posto dell’invenzione cristiana dell’anima, così diversa dal soffio espresso concettualmente nella “psiche” ellenica, Locke pone accanto l’approfondimento intuitivo dell'”identità personale“, quella coscienza propriamente detta che è il frutto di tutte le nostre esperienze sensibili ed emozionali, si riferisce alle nostre capacità mentali di pensare e di pensarci, di percepire e di percepirci. Non c’è qui una cesura netta con la sostanzialità dell’anima, come qualcosa di realmente concreto che, pure impalpabile, aderisce alla fisicità del corpo.
Locke non si spinge fino a questo punto; ma, nell’estendere coerentemente il suo pensiero – proprio seguendo la sua stessa esposizione sull’aderenza che le idee devono poter avere le une con le altre per poter affermare una oggettività conoscitiva – fa coincidere i nostri sensi con la nostra emotività e quindi, anche nell’esprimersi sulla critica del concetto di “sostanza”, la complementarità tra idea e rappresentazione naturale e oggettiva della stessa non vi è contraddizione.
Questo nonostante la domanda che lo stesso filosofo inglese si pone sui limiti della conoscenza soggettiva. Se, infatti, l’esperienza ci permette di tendere di continuo alla conoscenza, mediante la formulazione di relazioni tra le idee e il contatto con la realtà razionalmente percepibile mediante i sensi, non c’è rischio di rimanre intrappolati entro un perimentro ozioso, dentro un circolo addirittura viziosissimo in cui ci inganniamo, illudendoci di conoscere mentre ci perpetuiamo nelle medesime convinzioni?
Il dubbio e la domanda sorgono nel momento in cui Locke mette l’accento sulla coerenza delle idee, proveniente da una armonizzazione vicendevole che, superando l’asetticità delle singole presupposizioni (che di per sé non sono né vere e né false), innesca un processo di acquisizione del vero e del falso sulla base della coincidenza tra le idee stesse e tra ciò che esse rappresentano della oggettiva materialità dell’esistente.
Conoscere è riconoscere che c’è una verità “intuitiva” (ad esempio, il fatto che ciò che è chiaro non è scuro, che ciò che è vivo non è morto, che ciò che è solido non è liquido) e che esiste pure la dimostrabilità che la verità può andare oltre la semplice intuizione nel momento in cui le idee vanno a confronto con sé stesse e si ottiene un accordo che non è mera astrazione concettuale, ma oggettiva correlazione con quanto avviene ogni giorno in noi, intorno a noi e tra noi e il resto che ci circonda.
Coerenza delle idee e conformità tra le idee e la realtà delle cose sono la dimostrazione di una conoscenza che non rimane rinchiusa nel perimetro angusto della soggettività, ma che può aspirare costantemente all’oggettività, quindi alla condivisione universale di ciò che possiamo sapere. Non di tutto. Perché i limiti che ci sono propri dovrebbero, a questo punto, essere dati per acquisiti, abbandonando tutto quel filone della metafisica che ci ha distratto da una più acuta osservazione di ciò che è sensibile e acquisibile mediante il metodo empirico.
Il fascino del pensiero di John Locke risiede non solo nella critica verace nei confronti dell’innatismo delle idee o dei metodi baconiani e cartesiani che oggi possiamo discutere proprio partendo dalle loro premesse e da quanto ne è seguito, ma soprattutto – ed è ovviamente una considerazione soggettiva – nell’aver posto nuove basi per una valutazione critica di come noi esseri umani abbiamo letteralmente “classificato” ogni cosa, ogni altro essere vivente, la complessità del mondo che abitiamo.
Partendo dalla premessa che ciò che noi abbiamo sempre reputato “universale“, nei rapporti tra le idee delle cose e le cose stesse, viene rimessa in discussione tutta una serie di certezze che sono antropocentriche, perché partono dall’essere umano e all’essere umano ritornano di conseguenza. Quando noi classifichiamo dei fenomeni naturali, quando ad esempio parliamo di temporali, maremoti, di fiumi, di pioggia, di caldo, freddo, facciamo riferimento a leggi universali della natura a cui noi abbiamo dato un nome.
Ma la relazione tra questi fenomeni prescinde da come noi li abbiamo denominati e da come li abbiamo intesi fino ad un dato momento. Per tutti gli altri esseri viventi senzienti, questi movimenti marittimi, aerei, queste perturbazioni della materia, ogni accadimento naturale obbedisce a leggi che prescindono dalla sua conoscenza soggettiva, ma l’adattamento, che è un prodotto di una naturale intuizione che è frutto dell’istinto di autoconservazione, spingono ad esempio gli animali non umani a reagire in un medesimo modo e non disordinatemante.
Si stabiliscono, quindi, a prescindere dai nomi che si possono dare a cose, eventi e persone, delle relazioni che somigliano alla sostanza stessa di quello che accade. La nostra coscienza ci permette di riconoscerci in quanto tali e di riconoscere ciò che ci sta intorno e dare a tutto ciò una classificazione. Ma non potremo mai – sostiene Locke – arrivare ad una conoscenza della natura che ci consenta di parlare di “scienze naturali“. Perché possiamo avere esperienza di ciò che accade fino ad un certo punto, fino a ciò che è possibile vedere, toccare e sentire.
Non possiamo prevedere nuovi fenomeni. Non possiamo, in sostanza, astrarci dal piano dell’esperienza per rientrare in quello della metafisica. Sta di fatto che, se Locke avesse potuto, appunto, fare “esperienza” degli studi scientifici moderni, si sarebbe forse in parte ricreduto sulle scienze naturali, ma avrebbe avuto comunque ragione riguardo all’insorpassabilità della conoscenza diretta e della dimostrazione della stessa mediante accurati studi di laboratorio.
Della verità assoluta tanto delle scienze matematiche quanto della morale scriveremo in qualche altro momento. Magari ripassando un po’ per la storia di un pensiero occidentale: da Pitagora a Kant, osservando le mutevolezze di un soggettivismo dei valori che è andato di pari passo con lo sviluppo socio-economico-politico del mondo. Per questo, sarà interessante andare anche oltre il solo pensiero della porzione di pianeta in cui siamo abituati a vivere, provare a sapere e provare a conoscere.
Uno stimolo a tendere ad una sempre maggiore ricerca di quella armonia e compenetrazione delle idee che sarebbe piaciuta al nostro Locke, per cui gli unici limiti del sapere erano quelli riconducibili alla rassegnazione rispetto alle esperienze possibili da fare. Una sfida continua che, infatti, non è mai finita e non finirà.
MARCO SFERINI
25 febbraio 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria; in primo piano, a sinistra la figura di Platone tratta da “La scuola di Atene” di Raffaello (1509-1511 ca.), a destra un ritratto di John Locke