Cori antisemiti nelle curve. Almeno quattro casi nel campionato italiano in corso. Un fantasma, assolutamente non benvenuto, che ogni tanto salta fuori. Il calcio di casa nostra, che negli ultimi anni ha dovuto registrare – senza mai provare a risolvere alla radice – diversi episodi di razzismo e intolleranza, ora è attraversato anche dall’antisemitismo.
Il fenomeno è in crescita dal 2019. I dati sul 2021 dell’Osservatorio Antisemitismo: 5500 discussioni online con contenuti antisemiti.
Il calcio è ovviamente un riflesso della società italiana: ci sono stati diversi episodi nella passata stagione: tra tutti, il post antisemita del vicecomandante della polizia locale di Seregno (Milano), Massimo Vergani, che sui social aveva apostrofato come «ebrei» i tifosi del Milan. Interista, si è poi difeso sostenendo che si trattava di un linguaggio da ultrà. Niente intolleranza, quindi. E nessun provvedimento è stato preso dall’Inter.
Nel campionato in corso che è attualmente in pausa (si riparte il 4 gennaio) per i Mondiali in Qatar, si sono avuti addirittura due episodi nello stesso giorno, il 4 settembre. Protagonista, anzi vittima, ovviamente è stato il Napoli: all’Olimpico per Lazio-Napoli ci sono stati i soliti inviti al Vesuvio a lavare con il fuoco i napoletani, oltre ai buu razzisti verso l’attaccante nigeriano Victor Osimhen.
Si tratta ormai di un refrain, le offese razziste si verificano anche quando il Napoli non è impegnato sul terreno di gioco, con quella invocazione all’eruzione del Vesuvio. Insomma, ora anche i cori contro gli ebrei, intonati da una parte della tifoseria della Juventus e dell’Inter verso i supporter di Fiorentina e Milan.
«I campioni dell’Italia sono ebrei», è stato il coro, una specie di benvenuto di una parte del pubblico nerazzurro all’ingresso in campo delle milanesi nel derby di sabato scorso. All’Artemio Franchi, la casa della Fiorentina, si è fatto pure peggio: alcuni tifosi o sedicenti tali della Juventus hanno intonato altri cori antisemiti verso i viola, definiti tra le varie offese, «massa di ebrei».
Nel frattempo nella tribuna di fede fiorentina si sono segnalati padre e figlio con la maglietta del Liverpool, per ricordare ai bianconeri e gioire (loro) della tragedia dell’Heysel dove persero la vita 39 juventini, prima di essere invitati dagli steward a sfilare la casacca del club inglese. Sempre a settembre, in Serie C, allo stadio di Rimini è stato riservato lo stesso tipo di trattamento ai tifosi del Cesena. «Anna Frank tifa Cesena, giudei», e per rafforzare il concetto è stata aggiunta anche una croce celtica su una parete dell’impianto del club romagnolo. La scritta è stata subito cancellata e condannata dal comune di Rimini e dalla società.
Gli autori della vergognosa frase vergata allo stadio del Rimini sono ancora ignoti. Nella massima serie l’ultimo episodio, in ordine di tempo, si è verificato nel derby di Roma. Ma la casistica è stata abbondante anche nel corso della stagione passata. Insomma, non c’è assolutamente limite al peggio.
Ancora una volta, il calcio italiano si scontra con una strutturale incapacità di affrontare questi nodi: o non si reagisce, o avviene in maniera vaga, innocua. Le prese di posizione pubbliche da parte delle squadre sono da condividere, sostenere, ma non risolvono certamente il problema, che ha radici sociali profonde e che quindi va combattuto prima di tutto fuori dai campi sportivi e sul lungo periodo.
Ma se non altro mettono in chiaro che per le società esiste un confine, e che chi lo oltrepassa non deve più far parte della comunità che sta attorno a un club. Anche perché dal 2018 c’è una norma della Figc che consente ai club di agire per risolvere i casi senza attendere il corso della giustizia.
Lo ha fatto il Milan, prima società a intervenire, individuando i tifosi interisti che avevano intonato «i campioni d’Italia sono ebrei», spedendo il video dell’accaduto in Procura. I rossoneri avranno osservato e copiato quanto avviene in altri paesi. Il Chelsea, nell’agosto dello scorso anno, ha comunicato, dopo un’indagine interna, di aver individuato quel tifoso che aveva pubblicato messaggi antisemiti in Rete. Quel sostenitore dei Blues l’ha scontata cara: bandito alle partite del club londinese per dieci anni.
Dalla Premier League alla Bundesliga: l’Union Berlin ha proceduto all’identificazione del tifoso che si era permesso di rivolgere insulti di carattere antisemita a dei sostenitori del Maccabi Haifa: espulso a vita dal club. In Paris Saint Germain-Juventus di Champions League, diversi tifosi della Juve sono stati ripresi dai francesi mentre si producevano in saluti romani, cori razzisti e l’evergreen, i cori contro Napoli: quattro di loro sono stati identificati e arrestati dalla polizia parigina, con l’accusa di istigazione pubblica all’odio razziale.
Dunque, si può. Condanne nette, che non concedono spazio a dubbi. Ma che in Italia arrivano con estrema difficoltà, anche per la ritrosia di alcune società a mettersi contro gruppi della propria tifoseria. Solo lo scorso novembre la Lega di A ha voluto che fosse inserito negli statuti dei club i riferimenti alla lotta all’antisemitismo, adottando per la prima volta la definizione internazionale dell’International Holocaust Remembrance Alliance.
Un po’ tardi, perché i primi casi di antisemitismo negli stadi italiani si è avuto alla fine degli anni Ottanta. Precisamente, nel 1989, l’era d’oro della Serie A, che accoglieva i migliori calciatori del mondo. Alcune orribili scritte accolsero all’Udinese l’attaccante israeliano Ronny Rosenthal. «Rosenthal Go Home», «Via gli ebrei dal Friuli», «Rosenthal vai nel forno», questo era il tenore delle scritte riservate all’attaccante, dagli Hooligans Teddy Boys, il gruppo ultras della Curva Nord dell’Udinese.
Nel pacchetto del comitato di benvenuto per Rosenthal, anche un teschio, una svastica e la sigla del gruppo ultras.
NICOLA SELLITTI
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