Ultime lettere da Stalingrado

L’artiglieria da terra e gli aerei dal cielo hanno praticamente distrutto qualunque cosa e ucciso decine di migliaia di soldati e di civili. Stalingrado è ormai una distesa di...

L’artiglieria da terra e gli aerei dal cielo hanno praticamente distrutto qualunque cosa e ucciso decine di migliaia di soldati e di civili. Stalingrado è ormai una distesa di neve quasi ghiacciata: l’inverno vero, quello rigido, sta per arrivare. Lo dice un comunicato dell’Alto comando dell’Armata Rossa che il (quasi) feldmaresciallo Von Paulus tiene tra le mani.

E’ un ultimatum ma, soprattutto, è una constatazione palesemente oggettiva della disfatta tedesca, della tragica situazione in cui si trovano gli ultimi 90.000 uomini di una armata praticamente decimata e che ha come consegna diretta dal Führer di “resistere fino all’ultimo uomo, fino all’ultima cartuccia“.

Le mani di Paulus tremano da quando lo stress bellico è diventato insostenibile anche per lui, che si trova in una delle tre sacche di resistenza tedesca, separate fra loro dagli ultimi sfondamenti delle truppe di Rokossovskij.

Il maresciallo sovietico gli ha mandato a dire che ormai è questione di giorni, forse di ore e tutta Stalingrado sarà liberata. Ammesso che vi sia ancora qualcosa o qualcuno da liberare. Là in mezzo alle macerie sembrano esservi solo altre macerie e tanti cadaveri: tanti corpi rattrappiti dal gelo, ibernati in un sonno senza fine, crivellati da pallottole, dilaniati dalle bombe, asfissiati dai gas o dalla polvere delle mura che ti entra nei polmoni e ti soffoca senza pietà.

I soldati tedeschi non credono più nella salvezza e tanto meno nella vittoria finale di una patria che sentono lontana molto di più delle migliaia di chilometri che la separano da quella che Hitler e i suoi generali chiamano “la fortezza” o “il calderone“. Stalingrado non è né l’una e nemmeno l’altro: è un tappeto di orrore, di crimini di guerra, di devastazioni, di atrocità commesse nel nome di una megalomania che, in quanto tale, surclassa i piani strategici, le tattiche militari.

Hitler non ascolta nessuno. I comandanti, da Keitel a Jodl, da Manstein a Paulus glielo ripetono anzitempo, quando ancora la sacca di Stalingrado è ampia e una via di uscita è possibile, evitando così di essere tagliati fuori dal resto del fronte e rimanere isolati e circondati dai russi.

Ma il Führer non sente ragioni: è una questione di prestigio personale, quasi una sfida a duello che ha intrapreso con Stalin. Quella città che porta il nome del dittatore sovietico non deve cadere, deve essere, anzi, il trampolino di lancio verso una ulteriore espansione nel Caucaso verso quei giacimenti petroliferi che si trovano in Cecenia, a Groznyj e che sono la speranza di un Germania che sta perdendo la guerra in Nord Africa e che ora inizia a perderla anche sul fronte orientale.

I soldati tedeschi, come del resto il feldmaresciallo Von Paulus, non si trovano all’Obersalzberg, al caldo, dietro la splendida vetrata dell’ufficio di rappresentanza del potere hitleriano: non stanno sorseggiando tè e discutendo di piani di espansione ulteriore della Wehrmacht. Hanno dita delle mani amputate, piedi in cancrena, polmoni distrutti, menti che rasentano la follia ed esaurimenti nervosi da cui, almeno i 5.000 che ne usciranno vivi, non si riprenderanno più.

La Sesta armata tedesca, quasi 300.000 uomini all’inizio della disgraziata avventura russo-caucasica, è ormai ridotta a poche decine di migliaia di soldati che scapperebbero volentieri se avessero una via di fuga praticabile. Paulus manda telegrammi ad Hitler, lo scongiura di riprendere in considerazione la sortita per uscire dalla sacca di Stalingrado prima e, quando tutto sarà perduto, la resa.

La risposta del Führer è categorica: nessun feldmaresciallo nella storia tedesca si è mai arreso ed è caduto prigioniero del nemico. Quindi, la nomina di Paulus a quel grado è l’ultima macabra decorazione che gli spetta per il successivo gesto di eroismo che gli si chiede. A lui e ai suoi ufficiali: di fare come Marco Antonio e gettarsi sulla propria spada, una volta vinto e una volta perso l’onore romano.

Ai soldati Hitler chiede di morire gloriosamente, di farlo per mantenere impegnato il nemico lì, nel calderone della disperazione, nella fortezza senza mura, per permettere al Terzo Reich di organizzare un altro fronte. Anche se non si bene dove…

L’ultimo aereo postale è in partenza: le lettere per i parenti, per le mogli, per i figli e per le amanti, vengono messe nei grossi sacchi e caricati nella fusoliera. Poi spiega gli alettoni, si alza in volo per l’ultima volta. La pista da cui è appena partito non esiste più: i russi l’hanno distrutta. I rifornimenti non arrivavano già da giorni, adesso nemmeno più la corrispondenza potrà arrivare e potrà partire da quell’inferno di neve sempre più rossa e grigia.

L’ultimo bombardamento ha distrutto un palazzo intero ma, come per miracolo, ha risparmiato un pianoforte. I soldati lo hanno portato fuori dalle macerie e hanno iniziato a suonarlo lì, nella piazza dove non c’è altro se non morte, distruzione, mentre sopra il cielo è grigio, offuscato di continuo dai fumi che si levano dalle esplosioni, dai fuochi che non smettono di ardere.

Ma almeno gli spari si sentono un po’ meno. Le note di Beethoven coprono i rumori della guerra per alcuni istanti. Lo annota uno di questi giovani mandati a morire per il delirio di onnipotenza criminale di Hitler e del suo partito: nell’ultima lettera che scrive alla fidanzata c’è tanta disillusione. Che non pensi lei di sentirlo ancora suonare. Le sue mani «…sono andate…». Ha perso quasi tutte le dita. Gli restano solo il pollice e il mignolo per poter ancora prendere un bicchiere e bere.

Poco lontano c’è chi ha appena inviato in Germania una lettera che maledice le voglie di gloria del padre generale. C’è un figlio che, sapendo che quella sarà la sua ultima lettera, non usa mezzi termini e getta addosso al genitore tutta la disperazione per una guerra assurda, per la morte che lui stesso dovrà fare e che ora è il più grande senso di colpa per quell’uomo che avrà tra le mani le ultime parole di un ragazzo senza responsabilità per quello che accade.

La grandezza militare prussiana è stata umiliata dalla brutalità delle SS, dalle Einsatzgruppen del carnefice Heydrich dall’inizio dell'”Operazione Barbarossa” fino a quel momento. La brutalità antisemita e anticomunista delle più spietate unità operative delle Schutzstaffel non è cessata nemmeno con la morte del “macellaio di Praga“: Himmler in persona ha preso in consegna le operazioni delle SS sul vasto fronte orientale. Stalingrado compresa.

L’onore è perduto e la vita lo è quasi. I soldati tedeschi non sono meno disperati di Paulus. L’unico privilegio rimasto al fedlmaresciallo è uno scantinato in cui c’è quel che resta del suo comando militare: pochi aiutanti, una telescrivente che all’alba del 2 febbraio 1945 manda il suo ultimo messaggio alla “Tana del Lupo” a Rastenburg: “LC“. Solo due lettere. Nel gergo delle comunicazioni via radio significano: “Trasmissioni concluse“.

I russi hanno già fatto decine di migliaia di prigionieri. Il feldmaresciallo non oppone nessuna resistenza e con i suoi uomini si lascia catturare vivo dai russi. Hitler ha una crisi di nervi e fa le sue solite bizze davanti allo stato maggiore dell’OKW. Intanto Stalingrado è perduta. E questa perdita è molto più di una sconfitta: è, con El Alamein, l’inizio della fine del Terzo Reich.

Le lettere dei soldati, intanto, sono arrivate in Germania. Ma il loro contenuto è una disfatta ancora peggiore per il governo hitleriano: Goebbels le fa suddividere statisticamente tra “favorevoli alla condotta della guerra“, “contrarie“, “dubbiose“, “indecise“. Il responso è impietoso per i nazisti: oltre il 50% dei soldati si scopre non solo contro il modo con cui il tutto è stato deciso, portato avanti e lasciato poi al proprio destino nella sacca di Stalingrado; no, quei soldati sono contro la guerra stessa, contro Hitler, contro un militarismo così esasperato che trascende la tradizione prussiana, la disciplina e il senso del dovere.

Nessuno deve sapere che al fronte si pensano queste cose. Le “Ultime lettere da Stalingrado” devono essere censurate: si tolgono nomi, indirizzi e si lasciano nei sacchi dove sono arrivate. Nessun giornale le dovrà conoscere e pubblicare. Nessuno dovrà avere contezza dei sentimenti di quegli uomini che stanno morendo assiderati. Per quelli che sono destinati ai campi di raccolta in Siberia si apre un capitolo a parte.

Paulus e i suoi comandanti, alcuni mesi dopo la resa, parleranno alla radio invitando i tedeschi a disobbedire a Hitler, a rivoltarsi contro di lui, per una “Germania libera“. Sarà troppo tardi e, soprattutto, sarà come parlare al vento, perché i nazisti non lasceranno spazio ad alcuna possibilità di trattativa né con americani e inglesi e né tanto meno con le “bestie bolsceviche“.

La distruzione di Stalingrado ha mostrato a tutta l’Europa e alla Germania in particolare la fine che le si prospetta di lì a poco.

La liricità delle parole dei soldati che hanno scritto le loro ultime lettere dal Volga è straordinaria: così diverse tra loro, le trentanove missive contenute nel libro edito da Einaudi sono un documento preziosissimo non solo dal punto di vista storiografico, perché assumono i tratti di un vero e proprio dramma teatrale, degne di essere lette a grandi uditori, in un silenzio che rievochi la desolazione delle macerie, la distesa di neve ghiacciata, lo scoppiettio dei fuochi e il pallore dei visi sepolti da un manto bianco, ultimo, stanco velo pietoso sopra le tante sembianze prese dalla morte.

ULTIME LETTERE DA STALINGRADO
SOLDATI TEDESCHI DELLA SESTA ARMATA
EINAUDI, COLLANA “GLI STRUZZI”
€ 14,00

MARCO SFERINI

16 febbraio 2022

foto: particolare della copertina del libro

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