Amarena, ma non aspra, non amara, non stridula col parco, con i paesini dell’Abruzzo. Solitaria quanto bastava per allevare i suoi cuccioli e farli crescere senza che predatori della sua specie o animali umani potessero far loro del male. Amarena non aveva mai aggredito niente e nessuno. Vagava di notte, attraverso vie naturali, altre fatte dall’animale umano che l’ha un po’ sempre guardata con timore.
Ma, chi è cresciuto nel parco, la considerava una presenza addirittura rassicurante. Si sapeva che anche grazie a lei gli orsi marsicani avrebbero avuto nuova vita e non si sarebbero estinti. Poi uno sparo, sembra alla schiena dell’animale non umano, dell’orso che, dice il cacciatore che l’ha assassinata, gli aveva messo così tanta paura da riuscire a rientrare in casa, prendere un fucile e difendersi mentre già si dirigeva verso il bosco.
Amarena non ha avuto scampo. Bang! Ed è caduta a terra, lasciando i suoi due cuccioli da soli, sperduti e ora ritrovati. Tutto si risolve a coltellate, fucilate, pugni, calci, insulti.
La lontananza tra noi animali umani e il resto del mondo è così tanta che persino la traiettoria di una pallottola sembra quasi indifferente al solco che abbiamo tracciato con la natura, con tutti gli altri esseri viventi che abitano il pianeta e, si parva licet, con noi stessi, in noi stessi.
Per il colore della pelle, per l’appartenenza religiosa, per le differenti sensibilità e desideri erotici, sessuali, più che naturali. Un giornale ha scritto uno dei titoli più banali e scontati: «Gli animali siamo noi», attribuendo, come dovrebbe essere abbastanza lapalissiano, una connotazione negativa all’animalità. Che ci comprende e da cui noi tendiamo costantemente ad escluderci.
Noi siamo animali. Siamo parte di un “regno” in cui abbiamo introdotto lo specismo come espressione di un razzismo molto più esteso ed escludente di quello che esercitiamo nella nostra stessa specie: l’umana.
La considerazione che abbiamo di noi stessi, esseri altamente intelligenti e probabilmente gli unici su questa Terra ad avere un grado di autocoscienza tale da porci domande così tanto alte quanto inarrivabili e quindi insolvibili, ci ha permesso l’alibizzazione della nostra superiorità totale.
Nel nome della nostra capacità cognitiva e discernente un po’ tutto e tutti, noi animali umani ci siamo separati dalla nostra “animalità” e abbiamo iniziato a considerarci altro: ci siamo dati la patente di proprietari di un pianeta giustificando il tutto con una religiosità che ha raccontato come Dio sia a nostra immagine e somiglianza (e viceversa), e come abbia messo tutte le altre creature e la natura stessa al nostro servizio.
Il racconto della bontà divina è, di per sé, una narrazione dello specismo: l’essere umano da animale quale è diviene il padrone del pianeta, delle piante, dei mari, dei cieli e degli animali (non umani). Tutto va verso di lui che sta alla punta della piramide di un creazionismo che verrà fronteggiato soltanto migliaia e migliaia di anni dopo dalla modernità evoluzionista.
Gli animali diversi da noi sono, quindi, stati messi al servizio nostro e, come ha giustamente osservato Arthur Schopenhauer per loro abbiamo fatto della Terra un inferno, un luogo in cui sopravvivere nella migliore delle ipotesi o, nelle peggiori, patire fatiche, torture e irrisioni di ogni tipo, quando non anche la morte più brutale per diventare cibo.
Noi, a differenza di Amarena, possiamo scegliere se far soffrire degli esseri viventi per nutrirci oppure no. Il nostro “onnivorismo” non è né naturale e nemmeno una sorta di idea o disposizione biologica innata.
E’ una consuetudine ultramillenaria che può essere superata. Così come la predazione degli animali non umani, il farne degli schiavi al nostro servizio, il farne degli spettacoli da circo o dei moderni gladiatori nelle arene pubbliche e legalizzate: dalle corride alle corse dei cani, dagli ippodromi alle battaglie clandestine sempre di cani oppure di galli e altri poveri esseri viventi ridotti a brandelli.
Amarena muore perché un animale umano è così tanto umano da non sentirsi parte dell’animalità, ma di una umanità che ha il diritto di difendere la proprietà privata ad ogni costo e, seppure non direttamente minacciato, di sparare per uccidere, per eliminare la presunta minaccia.
La morte è il filo conduttore della storia di questo comportamento, di questa attitudine globale che è lo specismo; una parola ancora troppo poco conosciuta, soppesata molto poco, derisa e presa a calci da un senso di giustizia che gli umani pensano di avere anche quando si rendono conto della contraddizione che vivono.
Amano cani, gatti, magari anche conigli, uccelli, oche, anatre, furetti, e poi si cibano di altri animali come i maiali, i cavalli, le mucche, gli stessi conigli che prima accarezzavano per la loro tenerezza o, ancora, mangiano il foie gras estratto con una procedura criminale dal fegato dei poveri palmipedi.
Accorgersi della contraddizione, vederla proprio dal punto di vista di una autopsicanalizzazione molto spicciola, è un primo passo per cercare di capire che il punto etico è questo: non dovremmo, data la nostra intelligenza, metterci al servizio del mondo intero per migliorare la vita di chiunque, di ogni essere vivente e stabilire un equilibrio tra noi e la Natura con la enne maiuscola?
Se la risposta è “SI’“, allora la domanda successiva è quella che molti etologi e biologi si sono iniziati a fare da molto tempo a questa parte: qual’è il livello di sofferenza che possiamo accettare, che possiamo (ed indirettamente quindi vogliamo) far patire ad altri esseri viventi, ad altri “individui” (sì, individui…) per avere nel nostro piatto una fettina di carne, una cotoletta, uno spiedino, una salsiccia, un salame, del pesce o delle mozzarelle?
Tutto quello che prendiamo agli animali, dai loro prodotti naturali, come il latte, alla loro stessa vita è frutto di sofferenza, di sopraffazione, di dominazione, di appropriazione dei diritti di chi non può parlare e difendersi, di chi non può esprimere a noi quei diritti così naturale che dovrebbero essere intuitivi per una specie intelligente come la nostra e che, invece, sono il primo gradino della negazione specista di una uguaglianza considerata impossibile da realizzare.
Certe volte mi è capitato di leggere commenti e riflessioni sulla percezione della sofferenza animale. Quasi ci si stupisce che un cane possa provale dolore o sentimenti, che un orso sia anche altro rispetto allo stereotipo della quinta essenza dell’aggressività a cui noi lo abbiamo predestinato.
Ogni essere senziente, ogni essere vivente con un sistema nervoso sviluppato similmente al nostro è in grado tanto di provare gioia quanto dolore.
Perché mai i cavalli dovrebbero essere amati costringendoli ad essere montati dall’animale umano? Perché mai dovrebbero tirare carrozzelle nel centro di Roma e faticare sotto un sole cocente per far divertire i turisti e far guadagnare i postiglioni? Perché mai una mucca deve essere chiusa in una stalla e costretta a darci quel latte che le è naturale solo come nutrimento per i suoi piccoli?
Noi ci biasimiamo per la poca memoria che abbiamo degli stermini e degli olocausti che abbiamo provocato a noi stessi: stragi, guerre continue nel corso della Storia, stermini di ogni tipo, genocidi e cancellazione di interi popoli dalla faccia della Terra. Per la supremazia interna alla specie del più forte sul debole.
Era la logica dei nazisti: una prevalenza che reputavano “naturale” e che, quindi, travalicava persino le leggi democratiche e i tentativi di stabilire una uguaglianza di diritti e di doveri tra tutti gli esseri umani. Ed il nazionalsocialismo è stato certamente il punto di maggiore depressione e annichilimento della coscienza civile, sociale, culturale e politica che si può ritrovare nel cammino umano.
Distinguendo tra forti e deboli, tra capaci e incapaci, tra piccoli e grandi, da potenti e impotenti, tra miseri e ricchi, tra puri e impuri, questa umanità separatasi dalla sua animalità è andata oltre la preservazione della specie, considerata un conglomerato di differenze da stigmatizzare.
A differenza degli animali non umani, ci siamo dati battaglia per millenni col solo scopo di prevalere gli uni sugli altri e garantirci migliori condizioni di esistenza a tutto scapito dei perdenti. Anche gli animali non umani hanno delle gerarchie, formano delle comunità e si confrontano in un rapporto di “dominanza“.
Ma questa, diversamente da quello che si può ritenere, non è sinonimo di “aggressività“; semmai è confrontabile e assimilabile alla descrizione di un rapporto fra individui in cui si stabilisce una asimmetria comportamentale e relazionale.
Ci sarà sempre qualcuno più intelligente di un altro, oppure più forte fisicamente. Ma questa diversità non implica necessariamente che dalla dominanza animale si passi al concetto umano di “dominio” e, quindi, di impero, di comando, di subordinazione dell’uno all’altro.
La morte di Amarena è, nell’interazione tra animali non umani e animali umani, parte di una storia che ben conosciamo: noi abbiamo il diritto su tutto e su tutti perché siamo coscienti ed autocoscienti e pensiamo.
Questo fa di noi l’essere eletto, prediletto da un creazionismo che al suo vertice ha la divinità. Dunque, potremmo persino parlare di una discendenza divina del nostro impianto specista, di una sua radicalità teologica, giustificata dalla somiglianza tra il creatore e i creati a sua immagine e somiglianza.
Viviamo in un’epoca in cui non si può certo dire che manchino i mezzi per evitare di procurare la morte agli altri esseri viventi se ci sentiamo minacciati da quelli che consideriamo o che possono essere una minaccia per noi. Invece delle pallottole si possono usare dei potenti sedativi per addormentare gli orsi che lambiscono i confini delle abitazioni e che possono spaventarci. Perché eliminare? Perché uccidere a tutti i costi?
Forse per istinto. Un istinto animale anche questo, ma alimentato da una propaganda ultraspecista, secondo cui gli umani sono da preservare e tutte le minacce che si presentano loro innanzi sono da eliminare violentemente.
Questo ricorso alla violenza è la risposta peggiore e più sbagliata che possiamo dare nell’ambito del moderno tentativo di ristabilimento di un equilibrio nell’animalità così tanto sconosciuta degli esseri umani e il resto degli individui senzienti e viventi sul pianeta.
La liberazione umana, dal profitto, dal capitalismo che tutto sfrutta e fa sfruttare, è intrinsecamente legata alla liberazione di tutti gli animali da qualunque forma di sfruttamento e di subordinazione. Anche questa è una lotta che può e deve partire da noi sapiens. Proprio perché siamo più intelligenti e, per questo, abbiamo una maggiore responsabilità nella tutela della vita in ogni sua espressione.
Dobbiamo oltrepassare il quesito di base che si poneva molto tempo fa Jeremy Bentham (in sostanza se gli animali possono soffrire), perché sappiamo che ogni essere vivente a suo modo soffre. Anche le piante, anche i vegetali che, tuttavia, non hanno un sistema nervoso così complesso da provare il dolore cosciente, mentre esprimono reazioni inconsapevoli, espressione di una meccanicistica naturalità affidata loro dal processo biologico.
Dobbiamo entrare a poco a poco nell’ordine di idee dell’insostenibilità di questo modello di sviluppo basato sullo sfruttamento globale delle risorse naturali e di quelle animali. Dobbiamo far crescere l’antispecismo come massima espressione di una coscienza egualitaria e rispettosa di ogni esistenza, di ogni sensazione, di ogni vita.
Non possiamo chiedere questo al cacciatore che ha ucciso Amarena, perché ormai è irregimentato in un costrutto ideale e pratico che concepisce l’uccisione come un normale atteggiamento umano nei confronti dell’ambiente in cui vive. Cacciare è parte della sua innaturale natura. Se il cacciatore mettesse in discussione sé stesso finirebbe con l’impazzire.
Ma si può fare in modo che nessuno vada più a caccia, che uccidere per sadico divertimento sia un retaggio di un brutale passato. E si può legiferare considerando l’assassinio degli animali non umani uguale a quello degli animali umani.
Si può migliorare senza pensare che i cambiamenti debbano per forza essere rudemente traumatici. Ma la direzione è questa. Altrimenti, altre Amarena saranno uccise e noi continueremo a credere che si tratti solo di un incidente e non, invece, di un nostro modo di esistere e vivere inconciliabile con la Natura tutta.
MARCO SFERINI
2 settembre 2023
foto tratta da You Tube