Va perfettamente tutto al contrario di come dovrebbe andare anche nel caso dell’elezione della Presidente della Commissione Diritti umani del Senato della Repubblica.
Non c’è da stupirsi ma c’è da indignarsi. Lo stupore lascia il passo, dopo un po’, alla sola indignazione perché ormai tante, troppe sono le normali anomalie che si riscontrano nella gestione del governo, nei suoi rapporti con gli altri poteri dello Stato e, soprattutto, nel riversamento che ha l’opera dell’esecutivo, in parole e opere (reminiscenze ecclesiastiche farebbero dire: “…e omissioni. Mia colpa, mia colpa, mia massima colpa…”, ma di cosa sarei colpevole francamente non lo so…) ha sulla popolazione.
Il tutto si muove tra il serio e il faceto in un contesto di crescita di una incultura di massa che aiuta reciprocamente governo e partiti sovranisti a diventare espressione del consenso e, parimenti, a perpetuarlo, ad accrescerlo: il rapporto è, dunque, ambivalente e non sembra scemare al momento.
Dunque, diventa Presidente della Commissione Diritti umani del Senato della Repubblica, con il voto dei pentastellati, chi ha espresso parole che sono l’esatto opposto della vicinanza ai diritti umani: mise un “Like” di troppo al commento di un amico che su Facebook invocava i forni per i migranti.
Quasi nella normopatia della deriva crudelista di oggi si inseriscono poi commenti sulla famiglia tradizionale e via di seguito. Forse potranno apparire come cliché già sentiti, visti, letti, eppure sono figli di un tempo di resurrezione dell’egoismo anticlassista che, tuttavia, cresce e si sviluppa in un governo che paradossalmente rischia di apparire “sociale” grazie alle uniche misure che andrebbero criticate da sinistra per farne tesoro: reddito di cittadinanza e superamento della Legge Fornero.
Una critica da sinistra significa porre l’accento su questi temi che sono controversi e che non ci trovano unanimi nel giudicare, ad esempio, il tanto sbandierato “reddito” come una formula di lotta alla povertà e, tanto meno, allo sfruttamento.
Pochi giorni fa il Vicepresidente del Consiglio Di Maio, virgolettato da “La Stampa”, si è espresso così: “Chi lavora non deve essere sfruttato.“. Servirebbe una noiosissima lezione di economia politica per dimostrare marxianamente che nel sistema di produzione capitalistico chiunque lavori alle dipendenze di qualcuno è, se non altro per antonomasia, uno “sfruttato”.
Lo sfruttamento esiste in quanto esiste il lavoro salariato. Ma non è questo il momento per una tirata economica dal sapore classista tipico di quei ferrivecchi che sono i comunisti. Ora è tempo di innovazione e la si trova nel governo giallo-verde, nell’atipicità espressiva di Salvini piuttosto che nel formalismo di Di Maio. Si compensano. Equilibrio nella forza di governo che costituisce la maggioranza parlamentare unendo due elementi aggregativi di massa che parevano antitetici.
La teoria delle “tre destre” che vado predicando da tempo su questo sito aveva una sua ragione d’essere: magari poteva apparire un po’ strampalata, ma alla fine si è dimostrata veritiera, verificabile ogni giorno che passa sotto questo governo e sotto questa inesistente opposizione che non sa esserlo quando si tratta di non gestire i rapporti tra politica ed economia nazionale e continentale.
Dunque, lentamente, con inesorabile acquiescenza, il popolo si abitua alle trasformazioni politiche e anti-sociali che vengono avanti in un flusso di normalità impressionante. Dentro al torbidume delle destre di tutti i tipi prende forma forse una nuova generazione che eredita un senso dell’autoritarismo fondato sulla dura necessità della garanzia della sicurezza: la libertà di tenersi una pistola in un cassetto di casa e di usarla al primo cenno d’invasione – vera o presunta che sia… son dettagli! – è una grande evoluzione libertaria, un passo enorme in avanti di una civiltà italica abituata ad un clericalismo che viene sempre meno nella sua diffusione larga ma che si accentua nei disegni di legge che vorrebbero rendere meno semplici gli accessi a diritti come la separazione definitiva da un coniuge con cui risulta impossibile continuare a vivere.
Tutto va, dunque, al contrario di come dovrebbe andare. Possiamo anche un po’ scherzarci ed ironizzare per stemperare le nostre animosità, le arrabbiature e le contratture muscolari di un pensiero che sovente rischia di piegarsi alla vulgata comune.
Proviamo a restare seri, quindi dirci che una “risata li seppellirà”, ma proviamo anche a non diventare seriosi perché finiremmo per allontanarci ancora di più da un popolo che già ora non ci percepisce più come piano su cui appoggiarsi per regolare meglio la vita nel prossimo futuro.
MARCO SFERINI
15 novembre 2018
foto tratta da Pixabay