C’è un solco profondo che dagli anfratti delle politiche del governo Meloni sovrintende l’uniformità di una cultura comune, di una tendenza alla predisposizione – piuttosto indiretta e quindi, per questo, molto più carsicamente e insidiosamente efficace – popolare a persuadersi che le cose vanno in una certa direzione. O che lo sono andate nonostante la vulgata comune.
E’ il revisionismo. E’ la pervasività di una riscrittura dei fatti che riguarda non soltanto la ovvia voglia di rivincita di una narrazione completamente opposta a quelli che sono divenuti, nel corso dei settanta e più anni di vita della claudicante repubblica democratica italiana, i valori portanti della società e della comunità – Paese, bensì anche il modo di intendere il lavoro istituzionale e di tentare di separarlo, in un certo qual modo, al suo valore intrinsecamente politico.
Dopo le dichiarazioni dell’ex membro di “Terza Posizione“, Marcello De Angelis, sulla strage alla stazione di Bologna, è proprio questo il sottilissimo tratto distintivo su cui si incespica se si intende ritrovare una sorta di logica tra ruolo della politica, propriamente detta e intesa, e ruolo nelle istituzioni democratiche, altrettanto propriamente dette e intese.
Nelle dichiarazioni ufficiali, seguite alle esternazioni sui dubbi in merito alla acclaratissima matrice neofascista della strage che provocò ottantacinque morti e duecento feriti, si pone a sottolineatura proprio il ruolo separato dalla politica che avrebbe De Angelis, estraneo alla stessa e avente quindi un ruolo esclusivamente tecnico, di responsabile comunicazione istituzionale della Regione Lazio.
E’ una sottigliezza quasi impercettibile, perché si da per scontato che un portavoce o un segretario anche soltanto amministrativo, debbano in qualche modo, facendo riferimento ai politici che li hanno nominati e scelti per quegli incarichi, condividere quanto viene loro dettato o, ancora di più, quello che scrivono a nome e per conto dei loro referenti nelle istituzioni che, in qualche modo, indirettamente rappresentano.
La destra di governo, molto più cavillosamente di quella un tempo extraistituzionale o di opposizione, sta attenta a questi distinguo, perché proprio grazie all’articolazione di pensieri e parole in queste mezze pieghe tra il dire, il fare, il sembrare e l’essere si gioca la partita di una dialettica spesso impacciata, incapace di reggere il confronto con le fondamenta democratiche dello Stato, con l’essenza stessa della Repubblica.
Se è vero che ognuno ha il diritto di concorrere al benessere nazionale, alla politica italiana, alla sua trasformazione in concrete azioni di governo, è altrettanto corrispondente a verità il fatto che la cosiddetta “cultura di destra” altro non è se non una invenzione postmoderna, propria dell’ultimo ventennio berlusconiano e della fase oggi meloniana di un ritorno nelle istituzioni da protagonista, dopo una lunga traversata in un deserto tutt’altro che arido.
Se alla parola “cultura” dobbiamo il rispetto che merita, e quindi il considerarla un insieme organico e armonico di interdisciplinarità, di condivisione di contenuti e anche di contrapposizioni congetturali, confronti e scontri, raffronti, similitudini, differenze e opposti, è oggettivo che la destra post o neofascista che fosse (e sia…) non ha mai posseduto un retroterra culturale che le consentisse di affermare una alternativa a quello costituzionale, antifascista, resistente e solidale nell’esprimere l’eguaglianza come valore essenziale dell’Italia postbellica.
La difficoltà che ancora oggi la destra rileva nella formulazione di una serie di princìpi valoriali condivisi e compenetranti con l’interezza della Costituzione repubblicana, nonostante i giornali che la supportano e gli intellettuali che, di scorcio o più pomposamente dirimpetto, cercano un accredito grazie alle vendite di libri sul Ventennio mussoliniano riletto in chiave moderna, con le dovute correzioni critiche per farlo apparire più degno dello storicismo (revisionista) invece che dell’attualità politica, sono la chiara dimostrazione dell’insufficienza culturale e sociale delle forze conservatrici e reazionarie.
Non hanno granché da dire e quel che dicono lo elaborano prima e lo espongono poi con una grettezza che è assolutamente degna della primitività delle loro posizioni politiche: disumane, omofobe, retrive, repressive, razziste, xenofobe; con alla sommità del tutto la concezione della diseguaglianza sociale, civile e morale come punta di diamante della dimostrazione che nella stigmatizzazione delle differenza sta l’eccellenza della moderna ispirazione di un progresso non progressista.
Il tentativo di scindere la ragione di Stato (o di Regione) da quella politica e, quindi, di fare delle istituzioni qualcosa di gestibile al di là della stessa, è ben di più di un processo revisionistico portato avanti con tante, troppe controriforme messe in essere con decretazioni governative che scavalcano il ruolo del Parlamento e ne fanno un ratificatore puro e semplice.
Se lo Stato viene, in qualche modo, proposto, vissuto e gestito come se la Repubblica fosse soltanto la sua forma e niente di più, ecco che si spiegano tutte le facili declinazioni del pubblico nei confronti del privato e, allo stesso tempo, le iniziative intraprese dall’esecutivo per tutelare i privilegi delle classi dominanti e rovesciare gli effetti della crisi globale sui salariati, sugli sfruttati tutti, sui precari, sugli indigenti.
Non è solamente una questione di simbiosi tra piattaforma valoriale e piano tecnico-burocratico.
Qui è in gioco l’interpretazione alla radice della Repubblica in quanto espressione della volontà popolare di tendere quanto più possibile ad una condivisione delle scelte, ad una partecipazione sempre più larga che, nemmeno a dirlo, include il diritto di libertà di parola, di critica, di dialettica anche aspra, di organizzazione dal basso dei cittadini per modificare quella politica istituzionale che sovrasta la politica sociale, civile e la cultura che la ispira.
E’, quindi, in pericolo la strutturazione democratica nel senso più genuino del termine, perché se un rappresentante delle istituzioni pensa di cavarsela bonariamente, dopo aver contraddetto palesemente la verità storica e processuale di una delle più sanguinose stragi che abbiano devastato la coscienza e la forza popolare del Paese, affermando o lasciando che altri affermino per lui che ricopre un semplice ruolo di portavoce e, quindi, non ha incarichi politici, è come se affermasse che può dire quel che gli pare visto che non riveste ruoli apicali nell’amministrazione.
Nessuno può dire quello che vuole se quanto sta per dire è un tentativo di screditare la verità storica e quella data dalla giustizia di questa nostra sempre più democraticamente incerta Italia moderna. Ma ognuno è libero di criticare, anche duramente, i fatti storici, affermando, con più coraggio, di sentirsi parte di un’altra storia e, pertanto, di non condividere l’ambiente politico, sociale, civile e morale in cui gli tocca, obtorto collo, trovarsi, lavorare, agire.
Quando esponenti del governo e delle istituzioni non riescono a pronunciare la parola “antifascista“, riferendola a sé stessi, ebbene questo è un problema non dell’antifascismo, della Costituzione, della nostra Repubblica e delle sue istituzioni. Questo è un problema completamente e solamente loro.
L’inadeguatezza che hanno provato in passato era, e rimane, più che correttamente una percezione che va al di là di sé stessa, perché è la reazione a comportamenti concreti, a pratiche reali che confliggono con la Carta del 1948, con la nuova Italia che ne è nata.
Il governo Meloni è elettoralmente e politicamente legittimato ad esercitare i suoi poteri, ma non si può dire altrettanto sul piano della condivisione dei princìpi e dei valori cui dovrebbe non uniformarsi ma sentirsi pienamente parte nel consesso democratico, antifascista e laicamente repubblicano.
Questa dicotomia non fa che evidenziare tutte le contraddizioni multistrato che riguardano un aggregato di forze politiche che, non da ora, tentano di sovvertire il parlamentarismo, il rispetto dell’equipollenza tra e dei poteri dello Stato, il ruolo delle autonomie locali e i rapporti sociali tra i cittadini.
Il governo Meloni ha dato alle imprese la rappresentanza antisociale di una produzione di ricchezza che è vincolata ad un solo rispetto: quello dei privilegi delle classi proprietarie, del privato, dell’accumulazione dei profitti, della esaltazione dell’alta finanza e della linea atlantista come connubio tra politica interna e politica estera.
A ben vedere, dal suo insediamento, l’esecutivo delle destre populiste e postfasciste ha accompagnato ogni provvedimento con rivisitazioni storiche, alterazioni delle valutazioni scientifiche dei processi oggettivi di capovolgimento delle condizioni ambientali, stabilimento di priorità per pochi e aumento delle diseguaglianze con il pretesto di dare un impulso ad una economia veramente di stampo modernamente liberale, in realtà esclusivamente liberista.
Non sono soltanto le cifre ad essere il veicolo di una trasformazione regressiva sul piano civile e sociale del Paese intero. Anche le parole permettono di intercettare il sottofondo del detto-nondetto, del lasciato intendere, del confine nebuloso tra realtà e finzione, tra idea e pratica che, in questi casi, è veramente molto sottile.
L’idea di un tempo si tramuta in una pratica riformulatrice proprio di quello che è stato e che non può oggi tornare nelle stesse forme. Ma proprio questo è il grande dilemma: la riedizione in chiave moderna di autoritarismi che si insinuano nei meandri della democrazia e che la pervertono, la decostruiscono, la indeboliscono facendone solo una scena dell’apparenza con dietro una sostanza che le è impropria e per niente confacente.
L’attacco ai diritti del mondo del lavoro, delle minoranze, discriminando, facendo sembrare le differenze delle specificità negative piuttosto che dei contesti di accrescimento anche culturale dell’intero Paese, sono sintomi evidenti di un tentativo di mutamento radicale da parte delle destre, di realizzazione dei pensieri del passato con gli strumenti del presente.
Stiamo testando, a spese di milioni e milioni di italiani, la capacità di resilienza delle destre e la realizzazione dei piani di un tempo declinati alla modernità del liberismo devastante di oggi. Un missaggio di certezze e di eventualità potenzialmente deflagrante per l’Italia del nuovo millennio, stretta tra sconvolgimenti sociali, climatici e portata dentro la tragedia della guerra. Sempre più dentro, per la gioia dei mercati di armi e dell’imperialismo nordatlantico e americano.
Ed anche per questo c’è pronto un revisionismo attualistico con puntate precise nel grande panorama storico delle democrazie occidentali che preservano l’ordine mondiale contro tutti coloro che non hanno la stessa visione della società e della vita sul globo. La modernità è servita.
MARCO SFERINI
8 agosto 2023
foto tratta da Wikipedia