Tutti i muri della Casa Bianca

Somiglia sempre più al bunker della Cancelleria del Terzo Reich. E’ la Casa Bianca ai tempi di fine mandato di Donald Trump, ai tempi del Coronavirus e ai tempi...
La Casa Bianca, Washington

Somiglia sempre più al bunker della Cancelleria del Terzo Reich. E’ la Casa Bianca ai tempi di fine mandato di Donald Trump, ai tempi del Coronavirus e ai tempi della rivolta interetnica, sociale e di popolo contro un regime che ha fatto della polizia il cane da guardia dell’ordine senza se e senza ma. Soprattutto quando mantenere quell’ordine significa ristabilire tutte le prerogative che la macchina della repressione mette in atto nel momento in cui si sente minacciata essa stessa nel suo ruolo primario: fare da sentinella alla libertà di speculazione finanziaria, economica, di sfruttamento di ogni sovrastruttura politica per fini privati.

Del resto, nell’Eldorado del capitalismo mondiale (ammesso che ancora lo sia), in costante antitesi con l’altro polo di sviluppo del mercato, quello asiatico variamente composto da Cina, Giappone e India (nonché la Russia che gioca anche la sua partita sullo scacchiere europeo e mediorientale), trova la migliore applicazione ogni peculiarità che esprima fino in fondo tutto il peggio del sistema, che gli americani – da sempre, almeno nei film e nei telefilm! – intendono come “apparato-Stato” e come “società” nel suo significato più esteso ed estendibile: includendovi quindi tanto la struttura economica quanto la sovrastruttura politica.

Scorrazzando su Internet si possono vedere le prime immagini di una specie di “muro” che avvolge il perimetro, e diventa esso stesso nuovo perimetro difensivo, della residenza presidenziale. In realtà si tratta di una grata nera, simile a quelle che si potevano vedere nella zona rossa di Genova al tempo della sciagurata organizzazione del G8, ma dà chiaramente l’impressione dell’assedio che Trump sta, volente o nolente, subendo da larga parte della popolazione americana.

Con gesti simbolici di massa: l’inginocchiarsi tutte e tutti in segno di rispetto per la morte di George Floyd, riprendendo ciò che fecero i giocatori di football e baseball durante le esecuzioni dell’inno nazionale pre-partita. Anche questo scatenò e scatena tutt’ora l’ira di The Donald che prosegue come un panzer sulla linea dura: strategia elettorale o meno che sia, in vista dell’inizio del voto per – si spera – la mancata rielezione di questo multimilardario istrionico ma anche lucidamente folle al posto di comando simbolicamente più importante del mondo, gli Usa si trovano nella morsa di una nuova contrapposizione sociale in cui sembrano prevalere le giuste ragioni dei diritti civili.

Proprio la messa in contrapposizione tra diritti sociali e diritti civili, la difficoltà a scorgere una unità naturale tra queste due forme di espressione individuale e collettiva degli esseri umani, dei cittadini che sono lavoratori e produttori – prima di tutto – della ricchezza di tutta la nazione a stelle e strisce, è la leva migliore che il potere repubblicano può utilizzare per generare divisioni tra bianchi e neri, ricchi e poveri, nord e sud di un Paese che ha conosciuto una Guerra di Secessione inizialmente motivata più sul piano economico rispetto a quello, molto stereotipato, della volontà di emancipazione dallo schiavismo da parte degli Stati del Nord.

Tutte le barriere e le mura che il trumpismo ha eretto o minaccia di erigere, vogliono da un lato essere la dimostrazione della risposta dura, netta, che si erge fino al cielo come una lastra di cemento o di acciaio tra la classe medio-alta della società a stelle e strisce e la fine del carnet dei problemi del sociale (la povertà, la disoccupazione, la convinvenza tra i diversi popoli che abitano gli Stati Uniti, il razzismo, la xenofobia, l’omofobia, il patriarcalismo il rapporto tra individui e natura, e così via…); dall’altro, siccome questa risoluzione di problematiche non la si può ottenere con una politica fatta di repressione del dissenso associata alla tutela massima dei privilegi dei grandi poteri economici di Wall Street (e non solo), se ne conviene che il trumpismo è qualcosa di più di una risposta sbagliata.

E’ una deformazione persino dell’equilibrio dei poteri costituzionali che sono la garanzia dei diritti dell’uomo e del cittadino; è un assalto totale a quel rapporto tra prepotenza del mercato e formalismo istituzionale che, a volte, riesce a temperarne le richieste che vanno sempre a tutto scapito del moderno proletariato americano. Persino tra le fila repubblicane, davanti alla rivolta violenta diffusasi peggio del Coronavirus in tutti gli Stati Uniti, serpeggia malumore e critiche al Presidente iniziano ad essere avanzate mettendo in dubbio la sua rielezione.

Poter affermare, sulla base di queste evidenze, che Trump sarà battuto nel voto del prossimo autunno-inverno, è non soltanto impossibile, poiché nessuno di noi ha doti di preveggenza, ma nemmeno diventa probabile studiando a fondo tutti i flussi elettorali dettati dagli umori della popolazione e dallo spostarsi degli interessi economici dei petroldollari e anche del vasto ambiente della criminalità organizzata intercontinentale.

La nuova cinta posta a protezione della Casa Bianca, oltre ai cordoni di polizia, esercito e quanto d’altro l’aquila americana sfoggia per proteggersi dalla giusta protesta popolare, in fondo è un segno di decadenza, di una distanza così ampia tra gli interessi di tutti i lavoratori, degli studenti e di “milioni del cui lavoro vive l’intera società” (avrebbe detto Rosa Luxemburg) che non riguarda soltanto la parte repubblicana ma anche quella fintamente progressista che i Democratici vorrebbero poter incarnare.

E’ facile sembrare, pure essere tendenzialmente sociali (magari pure un poco “socialisti“) quando l’avversario che hai innanzi è la concentrazione di tutti i peggiori impulsi del liberismo: un sincretismo palese che riunisce in sé le contraddizioni più evidenti tra differenti modi di interpretare l’applicazione delle regole del mercato moderno. Una serie di sinestesie che associano spregiudicatezza economica e populismo; revanchismo primatista quasi razziale, tutto yankee e isolazionismo protezionista; perserveranza nell’apertura di nuovi fronti di guerra (soprattutto “non guerreggiata“) e riproposizione interna del suprematismo bianco mediante dichiarazioni che veleggiano sul “detto e non detto“, sulla negazione della libertà nel proporre proprio al “libertà di interpretazione“.

L’alternanza tra Repubblicani e Democratici, per quanto storicamente data, appartenente alla tradizione politica degli Stati Uniti d’America, non risolverà mai i problemi sociali del Grande Paese. Attenuerà gli effetti del capitalismo selvaggio sulle classi medie ma lascerà quelle proletarie e sottoproletarie a marcire nei ghetti, a restare sempre senza assistenza sanitaria, senza un minimo di riconoscimento di quei diritti che la Costituzione promette per il raggiungimento messianico di una “felicità” praticamente impossibile.

Non importa… sui soldi almeno campeggerà sempre il motto anglosassone: “In God We Trust“, così la coscienza dei capitalisti e dei finanzieri, dei banchieri e dei mercanti delle guerre sarà sempre splendidamente linda. E poi, si sa… “pecunia non olet“. Se non puzzano e sono pure benedetti da dio… questo, signore e signori, è tutto.

MARCO SFERINI

5 giugno 2020

Foto di Olya Adamovich da Pixabay

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