I commensali che pranzano insieme in una vineria attaccata al teatro Valle di Roma, a due passi dal senato, non sono passanti qualsiasi. Il signore in panama bianco che si porta strepitosamente gli oltre 90 anni è il presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano, la signora è Anna Finocchiaro, ministra per i rapporti con il parlamento. La portata che intendono divorare è la legge elettorale proporzionale che sta per essere votata alla camera.
Il fronte che si è mobilitato in nome del maggioritario e del rinvio delle elezioni in autunno è in realtà possente e proprio Napolitano ne è il dirigente più lucido e autorevole: se fosse un esercito ne sarebbe il comandante. La strategia è chiara e sta dando risultati confortanti: accerchiare il parlamento, dove la legge gode di ampia maggioranza, sino a provocare smottamenti a ripetizione nel fronte che la sostiene. Si sono mobilitati tutti i capi storici dell’Ulivo, da Prodi a Letta, da Veltroni a Bindi. I media hanno fatto muro, sia contro il ritorno al proporzionale che contro il voto anticipato. Il popolo della rete, a cui i 5 Stelle sono particolarmente sensibili, ha risposto all’appello.
La posizione non è ancora espugnata ma qualche varco importante si è aperto. Dopo Mdp anche Sinistra italiana ha deciso ieri di votare contro la legge senza quelle modifiche, il voto disgiunto e le preferenze, che in realtà comporterebbero l’affossamento dell’accordo tra Pd, Fi, M5Se Lega e la sepoltura della legge elettorale. M5S ha preso tempo per una nuova consultazione in rete e lo slittamento del voto finale a lunedì prossimo, dopo la tornata amministrativa, potrebbe creare ulteriori difficoltà all’interno del Pd se i risultati fossero troppo negativi. Nel Pd la minoranza orlandiana si muove in stretta connessione con Napolitano e considera l’annuncio di emendamenti a cinque stelle su voto disgiunto e preferenze una specie di liberatoria. Se l’accordo non è più blindato e Grillo, dopo essersi impegnato a non emendare, cambia idea, allora possono farlo tutti.
La pressione sul parlamento fa il paio con quella sul Colle. Nessuno s’illude che Mattarella possa schierarsi contro una legge votata dall’80% dei parlamentari, e del resto il suo silenzio rivela chiaramente che il capo dello stato non intende fare niente per ostacolare il patto. Le cose stanno diversamente per quanto riguarda la data delle elezioni. I media, Confindustria e una parte del governo, alla quale ha dato voce ieri il ministro dello sviluppo Calenda, ripetono che le elezioni a finanziaria aperta sarebbero una pazzia. «Il voto a settembre è un errore e un rischio per il paese, che ha bisogno di un po’ di calma, di finire le riforme e di una finanziaria seria», ripete Calenda. Probabilmente Mattarella è d’accordo con lui. Ma non fino al punto di sacrificare la legge elettorale. Nonostante le pressioni degli ulivisti, cioè del suo ambiente politico naturale, se necessario ingoierà persino le elezioni il 24 settembre.
Su un punto però Mattarella non può transigere: se la legge, nella sua versione definitiva, presenterà aspetti di dubbia costituzionalità non potrà esporre il paese al rischio di una terza legge elettorale bocciata dalla Consulta. Gli assedianti contano soprattutto su questo. Sono convinti che di passaggi a rischio ce ne siano almeno tre. È vero che la modifica della proporzioni tra eletti con l’uninominale e col proporzionale limita la possibilità di eletti nei collegi che si ritrovano poi esclusi dal parlamento. Però non la esclude. In secondo luogo è almeno molto discutibile l’eventualità di un vincitore nel collegio che non ottiene il seggio perché la lista a cui è collegato non supera la soglia di sbarramento. Infine ci sono ombre scure sui collegi disegnati sulla base di un censimento superato, come sarebbero quelli con cui si voterebbe in autunno.
Se Mattarella, come fece Ciampi col Porcellum, rinviasse la legge alle camere segnalando i punti deboli, il problema del voto autunnale sarebbe risolto. Non basterebbe però ad affossare la legge. Per questo uno dei ministri Pd che capeggiano la fronda diceva ieri apertamente: «Dobbiamo insistere e costringere Mattarella a uscire allo scoperto subito».
ANDREA COLOMBO
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