Quanto meno significa che il governo è già oggi in difficoltà, alle prese con una ricerca spasmodica di coperture di bilancio che non sono affatto facili da trovare. E’ quello che si evince dalla parole più sinceramente eclatanti del ministro Giorgietti, passato per le confessioni non agostiniane ma del Meeting di Comunione e Liberazione in quel di Rimini.
Una sincerità che da un lato disvela l’incongruenza tra la propaganda di campagna elettorale e i fatti, le cifre nude, crude e schiettamente impietose cui deve fare fronte; dall’altro lato lascia intendere che la manovra finanziaria sarà improntata ad una nuova fase dell’austerità, peraltro mai dismessa da tanto tempo a questa parte.
Se stiamo alle dichiarazioni dei leader del centrodestra nel settembre di un anno fa, quando si era, per l’appunto, in piena campagna per il rinnovo del Parlamento e per la formazione di un nuovo governo, la vittoria delle destre avrebbe dovuto portare al Paese un maggiore rigore verso il mondo dell’evasione fiscale, una ritrovata giustizia in questo senso, una ripresa dei diritti sociali, una svolta persino ambientalista dentro il quadro delle grandi opere che devastano montagne, vallate, mari, canali, strettti, coste.
Come volevasi dimostrare, almeno per quelli che ci hanno candidamente creduto, nulla di tutto questo è stato fatto, se non dare l’impressione che l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni avesse come scopo quello di garantire una maggiore sicurezza nelle vie e nelle piazze delle cento città d’Italia.
Anche questo tentativo di emulazione di un supereroismo da operetta di provincia (con tutto il rispetto per il lavoro lirico che si fa nei meravigliosi borghi del Bel Paese) è miseramente fallito. Altro che blocco navale, serrata dei confini e cannoneggiamenti delle navi vuote con relativo affondamento.
Le rotte migratorie, in quanto fenomeno intrinsecamente legato ad un sottosviluppo crescente (e non solo nella desolazione delle economie locali africane devastate, depredate e colonizzate dai nuovi poli emergenti), hanno continuato, con il placet delle mafie locali e dei contrabbandieri di esseri umani, ad alimentarsi e a dirigere i loro flussi di disperazione verso le coste della pseudo-fortezza europea e verso tutta l’ostilità di paesi in cui il salto di disumanità è stato fatto e si spara ai migranti.
Li si uccide, accatastandone i cadaveri come in un grande lager nazista.
Il governo Meloni, o meglio la sua politica estera, contano ben poco nell’affaire libico, dove Russia e Turchia da un lato, occidentali dall’altro si tengono nel mirino per il controllo di una ampia fascia del Meditteraneo e di tutto ciò che vi passa in mezzo (corpi vivi o morenti dei migranti inclusi…).
Meno ancora conta il governo italiano nella faccenda della guerra in Ucraina. L’assenso aprioristico, vissuto come naturale e logica collocazione entro il perimetro dell’Alleanza atlantica, dell’invio indiscriminato di armamenti per combattere un conflitto imperialista, conta ancora meno dell’apatica trasparenza europea.
Il governo delle destre fallisce, ad un anno quasi dal suo insediamento, in ogni direzione, su ogni terreno, in ogni tematica che ha affrontato e lo fa ricordando agli italiani che la crisi avanza, che non risparmia niente e nessuno e che, quindi, Giorgetti dixit, se è lecito ipotizzare un sostegno ai ceti medio-bassi, è altrettanto lecito pensare a come far patire il meno possibile tutti questi effetti negativi al ceto dirigente, alla classe imprenditoriale, quindi ai padroni, alle grandi industrie, alla grande finanza.
E l’unico modo è una distribuzione delle tasse verso il basso e non verso l’alto, di un taglio del cuneo fiscale che si può rendere strutturale non ricorrendo ad una patrimoniale, oppure all’introduzione di riforme sociali come il salario minimo garantito, semmai con una detassazione degli utili, lo scudamento dei capitali e non il prelievo massivo sugli extraprofitti.
Il governo non ha come obiettivo il sostegno al reddito da lavoro (tanto meno incentiva il risparmio in questo senso) e nemmeno le pensioni e non ne fa mistero. Giorgetti utilizza l’argomento della denatalità e dell’aumento dell’anzianità nella popolazione italiana per affermare che il sistema INPS non può reggere, anche a fronte di una riforma da parte di Palazzo Chigi e del Parlamento.
Se questa fosse la verità, viene da chiedersi: come mai non diminuisce il tasso di disoccupazione? Come mai le imprese non assumono più dipendenti, magari a fronte di una riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario e distribuiscono così il monte ore tra più lavoratrici e lavoratori, creando in questo modo molta più forza-lavoro?
Se il destino del sistema pensionistico fosse esclusivamente legato alla natalità, ne dovremmo concludere che, in presenza di un sempre maggiore numero di eclusi dal mercato del lavoro, occorrerebbe affidarsi alla crescita economica e sociale soltanto guardando alle generazioni future? E’ ovvio che una incidenza è riscontrabile nel rapporto tra pensionati e lavoratori attivi. Ma qui, nell’oggi, e non nella prospettiva di decenni.
I salari e le pensioni da fame sono legate dallo stesso destino: la crisi internazionale che si riversa sul continente europeo e gli impegni presi con Bruxelles e Francoforte. Soldi per centinaia di miliardi, magnificati come la panacea di tutti i mali e che il governo di Giorgia Meloni non è nemmeno in grado di collocare in progetti di ampio respiro, presso le comunità locali.
Ma per l’economia di guerra i soldi si trovano sempre. Il 2% del PIL deve e non può non essere destinato agli armamenti, alla spesa militare. Mentre al Sud, precisamente in Campania, la gente fa la fila per prendere un carta benefici che vale 40 euro al mese e che viene ricaricata ogni due mesi. Elargita a chi ha più di 65 anni o una famiglia con figli di età inferiore ai tre anni. In sostituzione del reddito di cittadinanza, tolto, solo nel napoletano, ad oltre ventimila persone.
L’inflazione aumenta e colpisce i generi di prima necessità. Compresi i carburanti che sono essenziali per gli spostamenti. Ma gli antichi anatemi contro la tassazione di Stato sulla benzina erano roba da campagna elettorale e niente più. Pretese che si sono dissolte nell’inconsistenza dell’aere una volta che le destre sono arrivate al governo e hanno scoperto tutte le compatibilità del sistema e gli interessi da garantire: quelli, sempre e soltanto, dei granti capitali.
Chi si lamenta oggi, infatti, non sono gli industriali – che perfino sostengono misure di riequilibrio sociale come un salario che vada oltre i nove euro all’ora (Bonomi dixit: “Se vogliamo parlare di salario minimo con una soglia minima di 9 euro lordi non è un problema di Confindustria, che va sopra questa soglia”) e per questo andrebbe portato almeno a dieci euro – ma la stragrande maggioranza di una popolazione che vede il potere di acquisto dei salari e delle pensioni ridotto all’osso.
I tecnici degli uffici ministeriali hanno lanciato un allarme qualche giorno fa: secondo delle stime ancora approssimative ma comunque rispondenti ai criteri che si intendono utilizzare per la composizione dei capitoli della manovra di bilancio, il governo potrebbe contare soltanto su 4,5 miliardi di euro. All’appello dei trenta che sostiene essere necessari per le opportune coperture ne mancherebbero quindi almeno 25,5… Mica poco…
La spirale dei prezzi – salari si fa sentire e innesca dei cortocircuiti sociali che rischiano di diventare una spina nel fianco dell’esecutivo. Reperire quelle decine di milardi sarebbe possibile se si tassassero i ricchissimi e se si facesse l’esatto contrario di ciò che intende fare il governo Meloni.
Era stato Draghi a tracciare l’ultima rotta dell’austerità: «Fino a che aumentano i prezzi ma non i salari l’ondata inflazionistica è gestibile». La seraficità di questa dichiarazione è impressionante. Così come lo è il fatto, pur non stupendo affatto, che il nuovo governo attualmente in carica abbia fatto propria la linea liberista a tutto tondo.
Se si apre il capitolo del lavoro dipendente e di una riforma della contrattazione collettiva è del tutto oggettivo il costo sociale per una finanziaria che intende invece guardare al mondo delle imprese e all’aumento dei miliardi per gli arsenali bellici. Cinque o sei miliardi saranno il capitolo che riguarderà la spesa militare e, siccome la coperta è corta, non ce ne sarà per la sanità così come per il riassetto idrogeologico del territorio.
Le parole di Giorgietti al Meeting di Rimini sulla sostenibilità economica unita a quella ambientale sono rassicuranti ma non fanno il paio con le cifre che si presume il governo intenda impiegare in merito. O i soldi vanno ai caccia, ai carri armati, alle armi pesanti e leggere, oppure vanno a rimettere a posto un po’ di fiumi, colline, valli e montagne distrutte dagli eventi naturali di un cambiamento climatico che, linea molto comune a destra, viene negato in quanto tale.
Quanto il governo sta sottovalutando la portata antisociale di queste misure? E’ pensabile ipotizzare un controllo delle contraddizioni che ne verranno fuori tale da permettere a Meloni, Salvini e Tajani di arrivare a ridosso delle elezioni europee con delle carte vincenti? Sono interrogativi spontanemente suscitati da una dislivello impressionante tra concentrazione della ricchezza in sempre meno italiani ed estensione della povertà in un numero sempre maggiore di cittadini già gravati negli anni scorsi dai movimenti tellurici della pandemia prima e dell’economia di guerra poi.
La risposta la si avrà, almeno parzialmente, con l’inizio dell’autunno. Che sia più caldo di quello estivo, almeno meteorologicamente è difficile da poterlo affermare e soprattutto da augurarselo. Ma che lo sia sul terreno della lotta e dello scontro di classe, questo è un augurio che ci sentiamo di fare reciprocamente.
MARCO SFERINI
22 agosto 2023
foto: screenshot You Tube