La Tunisia non è nuova all’emergenza profughi, ma ben diversa è l’accoglienza. Nel marzo del 2011 colonne interminabili di uomini (soprattutto maschi) in fuga dalla Libia dopo l’inizio degli scontri che misero fine al regime di Gheddafi attraversarono la frontiera con la Tunisia a Ras Jdir.
Non erano profughi nel senso classico, non fuggivano da una guerra conclamata e nemmeno dalla fame, ma da scontri e saccheggi avevano messo a rischio la loro vita e soprattutto il posto di lavoro. Proprio un lavoro e ben retribuito questi profughi erano andati a cercare in un paese più ricco del loro. Già nei primi giorni si calcolavano in circa 140mila gli arrivi mentre altre decine di migliaia si accalcavano alla frontiera.
L’ondata di profughi si riversava su una Tunisia fragile e debole che affrontava un’incerta transizione dopo la cacciata di Ben Alì. Eppure, dopo il primo momento di sorpresa, la reazione dei tunisini era stata straordinaria, avevano avuto uno slancio di solidarietà e generosità commovente.
Lungo la strada mentre ci avvicinavamo al confine, si notava l’arrivo di tunisini con beni di prima necessità, soprattutto i panettieri con i loro furgoncini carichi di baguette. Naturalmente si sono subito attivate anche le agenzie internazionali oltre alle istituzioni tunisine, l’esercito aiutava a garantire il coordinamento e lo stoccaggio delle merci.
Oltre ai tunisini che tornavano a casa, i profughi erano egiziani, indiani, vietnamiti, turchi, cinesi, nepalesi, thailandesi, bengalesi, ghanesi e sudanesi, soprattutto. A ridosso del confine c’erano anche etiopi ed eritrei che temevano, per il colore della pelle, di essere scambiati per mercenari assoldati da Gheddafi.
Una grande differenza rispetto ai profughi di oggi è che coloro che fuggivano dalla Libia volevano ritornare nei loro paesi di origine e chiedevano ai rispettivi governi di inviare navi e aerei per il rimpatrio. Quindi, in gran parte, non erano profughi ma «transitanti», così li definiva Samir Abdemoumen, del ministero della sanità tunisino, che si appellava alla comunità internazionale perché fornisse i mezzi per il rimpatrio.
E questo era anche l’appello di tutti gli operatori del campo allestito a Chocha, dove si ammassavano le merci per i futuri arrivi. A Chocha sarebbero poi arrivati anche libici in cerca di asilo politico.
Naturalmente la transitorietà dei profughi non rassicurava la Tunisia visto che la situazione in Libia stava precipitando e aveva anche provocato l’interruzione dell’arrivo di merci libiche vendute nell’immenso suq di Ben Guendane e della benzina commerciata in taniche lungo la strada. Intanto l’aeroporto di Djerba e il porto di Zarzis erano diventati bivacchi per gli espatriati dalla Libia in attesa di tornare a casa. Non solo.
In quei giorni di mare calmo, sembrava una tavola blu, sulla spiaggia di Ogla, che dal porto di Zarzis si estende per chilometri, un gruppo di giovani scrutava l’orizzonte e soprattutto aspettava che si spostasse una nave da guerra tunisina. Era cominciata allora la partenza dei barconi per l’Italia, che avveniva alla luce del sole, di mattina o di sera, in un posto nemmeno tanto isolato, davanti a un gruppo di villette. Bastava versare mille dollari, lasciare un numero di cellulare e aspettare la chiamata per la traversata verso Lampedusa.
All’inizio erano tunisini che preferivano non affrontare l’incertezza del dopo Ben Alì, mentre altri trovavano il loro riscatto nello zelo con cui accoglievano i profughi. Poi si sono aggiunti anche profughi provenienti dalla Libia che invece di aspettare il rimpatrio tentavano la traversata. Coloro che arrivavano dalla Libia in genere avevano soldi, se non erano stati derubati dai poliziotti libici.
Cosa è cambiato da allora per alimentare nei tunisini, non in tutti per la verità, l’ostilità verso i profughi che arrivano dall’Africa subsahariana? Non il colore della pelle, non l’origine, forse l’incertezza per il futuro che però c’era anche nel 2011, ma allora si lottava per una Tunisia democratica. Certo, la delusione per una rivoluzione che non ha portato i risultati sperati, la pesante crisi economica, che alimenta inevitabilmente la guerra tra poveri, ma soprattutto il ritorno di un regime autoritario e dittatoriale.
La xenofobia non nasce dal basso viene inculcata dal presidente della Repubblica Kais Saied che alimenta i suoi fallimenti assumendo tutti i poteri e creando nemici esterni, popoli del sud che fuggono dalla guerra, fame e povertà e cercano un futuro in Europa. Paradossalmente è proprio questo atteggiamento di gendarme dell’Africa che fa di Saied un interlocutore privilegiato della premier Meloni e dell’Ue, che con soldi e armi mirano a una nuova colonizzazione del continente africano.
E il pressing su Saied, perché blocchi i migranti, continua domenica con la nuova visita a Tunisi di Giorgia Meloni con Ursula von der Leyen e Mark Rutte. Del resto il governo italiano può vantare di avere in comune con il premier tunisino lo spettro della «sostituzione etnica».
GIULIANA SGRENA
foto: screenshot ed elaborazione propria