La quarantasettenne Mary Elizabeth (Liz) Truss è la nuova prima ministra britannica. Lascia la carica degli Esteri per succedere a Boris Johnson dopo aver sconfitto ieri il rivale Rishi Sunak nel ballottaggio deciso dal voto dei circa 170mila membri del partito conservatore.
Si è aggiudicata il 57.4% dei loro voti (81.326) contro il 42.6% (60.399) dell’ex ministro delle finanze. In questi dodici anni di dominio Tory, Truss è il quarto primo ministro britannico dal 2016, quando l’esito del referendum su Brexit portò David Cameron alle dimissioni; è inoltre la terza donna (Tory) a occupare il civico dieci di Downing Street dopo i premierati di Margaret Thatcher (1979-90) e Theresa May (2016-19). Oggi andrà dalla poco deambulante monarca a Balmoral a ricevere il mandato. Si presume che il ministero delle finanze andrà al sodale Kwasi Kwarteng.
Nativa di Oxford, figlia di un professore di matematica e di un’infermiera di fede socialista che la portavano alle manifestazioni antinucleari e anti-Thatcher, Truss è cresciuta nel Nord agro/industriale del paese, prima in Scozia e poi a Leeds, Inghilterra.
Ha dunque un’estrazione ben diversa dal suo predecessore e alleato, l’aristo-etoniano Johnson: ha frequentato una scuola pubblica e socialmente rimanda al suo idolo di sempre: la figlia di operosi bottegai Thatcher. A Oxford ha studiato filosofia, politica ed economia, ma le sue simpatie politiche non furono conservatrici dalla prima ora: già militante liberaldemocratica in gioventù e originariamente favorevole al remain nella dolorosa saga referendaria, per lei il detto «solo gli imbecilli non cambiano mai idea» è particolarmente pregnante.
Ha lavorato in mega-aziende come Shell e Cable and Wireless, fatto parte dell’immancabile think-tank di destra mentre il suo centrismo liberale si trasmutava in un fondamentalismo free-market di chiaro stampo reagan-thatcheriano.
Come molti apostati/convertiti, che abbracciano l’antitesi della propria trascorsa fede con puerile intensità, il suo filoeuropeismo si è ben presto rovesciato in un fanatizzante euroscetticismo, di certo tornato utile per vincere la corsa alla leadership fra le frange Tory più destrorse. È da quasi un decennio al governo, dopo aver ricoperto svariati incarichi sotto i suoi tre predecessori, compresi i dicasteri di Giustizia, Ambiente e segretariato al Tesoro.
Affacciandosi sull’autunno più difficile per il paese che la storia recente ricordi, in mezzo a inflazione stratosferica e raccapriccianti aumenti del prezzo dell’energia, il suo programma è semplicemente da la la land: tagli alle tasse ai ricchi, «meno burocrazia», debellare quel che resta delle leggi dell’Unione europea nelle transazioni economiche, incrementare la spesa militare, mettere una moratoria fiscale alla transizione ecologica, combattere inutili guerre contro la cancel culture nelle università.
Roba uscita da un manuale dei giovani neoliberisti che fa salire le endorfine a chi l’ha votata ma che nell’attuale congiuntura somiglia fin troppo a una zappa sui piedi. In politica estera, all’euroscetticismo si abbina una vigorosa propensione all’interventismo militare, con toni antirussi ancora più marcati di quelli di Johnson e la promessa di “premere il bottone” in caso di necessario olocausto nucleare. Sul fronte del lavoro non collaborerà coi sindacati per affrontare il caro vita e questo alla vigilia di un’ondata di scioperi annunciati in quasi tutti i settori.
Il paradosso è che questa premier promette una classica linea thatcheriana «meno stato più mercato» quando lo stesso Johnson ha finora seguito necessariamente il contrario: nella crisi del Covid e ora in quella del costo della vita lo stato dovrà metterci una pezza sostenendo milioni di cittadini sull’orlo – o in piena – povertà.
Truss ha invece vinto gettando carne rossa ai tories di destra del suo partito, una minoranza che non rappresenta nemmeno il partito parlamentare, che le preferiva Sunak o – addirittura – non avrebbe eliminato Johnson. Non solo: i ripetuti richiami anche a destra a una nazionalizzazione del settore energetico testimonia un cambiamento di umore dell’elettorato.
Che potrebbe tramutarsi in una vittoria Labour alle prossime elezioni, nel gennaio 2025.
Fedelissima di Johnson, Truss ha vinto perché la sua vittoria puniva Sunak due volte: come rivale alla premiership, certo, ma soprattutto come colui che ha rovinato il partito facendo cadere “Boris”, creando gravi malumori in chi vedeva – non del tutto a torto – nel defenestrato non solo l’unica speranza di prolungare il dominio conservatore nel paese.
Quanto allo stesso Johnson, non ha detto se lascerà la politica per fare il conferenziere un tanto al chilo o resterà dietro le quinte in attesa di riprendersi il maltolto. In troppi, nel suo partito e non solo, lo rimpiangono. Per capovolgere Flaiano: La situazione è grave e anche seria.
LEONARDO CLAUSI
Foto di Andrea Piacquadio