Il 29 febbraio scorso un uomo di 58 anni moriva a Seattle a causa del Covid-19. Ieri, 15 aprile, alle 17 ora italiana, i morti negli Stati uniti erano oltre 26mila: vittime non del destino, o dell’aggressività del coronavirus ma dell’incompetenza, buffoneria e criminale negligenza dell’amministrazione di Donald Trump.
Che in marzo aveva dichiarato ripetutamente che l’epidemia non sarebbe stata più grave di un semplice raffreddore. Martedì notte, in un maldestro tentativo di nascondere le proprie responsabilità , Trump ha ordinato di tagliare i fondi alla World Health Organization, l’agenzia dell’Onu che in queste ore sta aiutando tutti i governi del mondo a far fronte alla pandemia.
Poco importano, qui, i pretesti accampati dal presidente americano per giustificare la sua decisione (immediatamente condannata da tutti i governi del mondo e dalle stesse autorità sanitarie americane), il gesto di Trump ci dà la misura di quanto sangue e quante lacrime scorreranno prima di uscire dall’incubo.
Un incubo che negli Stati uniti è triplice: medico, economico, sociale.
Medico perché, come ben si sa, il sistema di cure è per la maggior parte privato e quindi lascia fuori dalla possibilità di curarsi vaste fasce di popolazione che non possono permettersi un’assicurazione sanitaria.
Economico, perché i dati di ieri del Dipartimento del Commercio confermano la profondità della crisi: le vendite al dettaglio in marzo sono calate del 9% rispetto a febbraio e, poiché le restrizioni agli spostamenti e altre misure di salute pubblica sono entrate in vigore solo a fine marzo, il bilancio di aprile sarà sicuramente peggiore.
Infine, sociale, perché le minoranze etniche sono le più colpite sia dal coronavirus in quanto tale sia dalla catastrofe economica in corso, non ancora valutata appieno nelle sue dimensioni.
Il premio Nobel Paul Krugman ha scritto qualche giorno fa che l’economia americana è «in coma medicalmente assistito», ovvero è in qualche modo tenuta in vita dalla Banca centrale che sta freneticamente stampando moneta, ma le sue condizioni sono allucinanti: ieri la borsa di New York ha di nuovo registrato un calo sostanziale e oggi si conosceranno i dati delle nuove perdite di posti di lavoro, in aggiunta ai 17 milioni scomparsi nelle tre settimane precedenti. La previsione è che altri 6 milioni di disoccupati si siano aggiunti alla lunga lista di sventurati.
Non serviranno a molto neppure gli assegni da 1.200 dollari che – firmati personalmente da Trump in un’altra esibizione di megalomania – arriveranno tra qualche giorno alle famiglie americane: chiunque debba pagare affitto, bollette, spostamenti casa-lavoro e scuola dei figli ne trarrà vantaggio al massimo fino a metà maggio, fra 30 giorni le condizioni dell’intero paese saranno paragonabili a quelle della Grande Depressione del 1930.
Un disastro che non ha ancora trovato il suo John Steinbeck per scrivere un romanzo come Furore, forse per trovare dei punti di riferimento bisognerà guardare alla letteratura di fantascienza post-atomica degli anni Cinquanta, quella che immaginava la vita dei pochi sopravvissuti a un conflitto nucleare, come On the Beach, di Nevil Shute.
Non è solo la vita delle persone a essere a rischio, né la ripresa dell’economia, sulla quale nessuno osa fare previsioni, ma la stessa democrazia americana, che si ritrova con un leader votato all’unanimità da 200 scienziati politici come il «peggior presidente nella storia degli Stati uniti».
Paradossalmente, da questo disastro Donald Trump potrebbe emergere come vincitore in un campo di rovine, in un deserto costellato di macerie, corpi sepolti in fosse comuni, città devastate.
Malgrado la maggioranza degli americani oggi disapprovi la sua gestione della crisi nessuno può dire cosa succederà il giorno delle elezioni.
Più simile a un moderno Caligola che a un capo di stato, Trump fa il deserto attorno a sé, licenziando esperti, collaboratori e autorità indipendenti con un tweet.
Il 3 novembre si dovrebbe votare (il condizionale è d’obbligo nella situazione attuale) ma in ogni caso Trump resterà in carica fino al 20 gennaio 2021: nove lunghissimi mesi in cui il mondo dovrà contare in vite umane il costo dell’elezione presidenziale del 2016.
FABRIZIO TONELLO
Foto di Gerd Altmann da Pixabay