Non è stata una battuta, l’ultima uscita da brividi di Donald Trump, non è stata una gaffe, ma un’affermazione «politica» consapevole e deliberata, ripetuta più volte. Che infatti il viceportavoce della Casa bianca, Raj Shah, come tale ha trattato. Sì, il presidente degli Stati uniti d’America considera «un cesso» (shithole countries) El Salvador, Haiti e paesi dell’Africa da cui provengono gli immigrati che hanno trovato temporanea accoglienza in America e che lui vorrebbe rispedire a casa («nelle loro capanne»): e allora? Shah non smentisce, e spiega così il senso politico delle parole dette da Trump nello studio ovale a un gruppo di parlamentari: «Certi politici a Washington scelgono di battersi per paesi stranieri, ma il presidente Trump si batte per il popolo americano». Quindi prendersela con gli immigrati, con persone di colore, è battersi per gli americani: gli americani bianchi. Quelli che l’hanno eletto.
Già, è bene ricordarlo e ripeterlo ancora una volta, specie a chi s’ostina a spiegare che, non fosse per la sua eccentricità, Trump è un presidente come i predecessori, e comunque destinato presto a esserlo, specie dopo l’uscita di scena (reale?) di Steve Bannon: è bene ricordare che Donald J.Trump è stato eletto da una parte dell’America, l’America bianca rancorosa, con ampie ed evidenti componenti suprematiste, xenofobe e razziste. E, dopo la sua elezione, solo a quell’elettorato ha fatto e fa riferimento, in un’ininterrotta campagna elettorale, essendo del tutto indifferente e insofferente alla sola idea di essere il presidente di tutti gli americani.
La definizione di shithole affibbiata a parti del mondo da cui provengono non solo immigrati a lui sgraditi ma anche tantissimi cittadini statunitensi è l’ultima di una serie di dichiarazioni di odio razziale e xenofobe, dal Messico che lascia entrare in America «violentatori e criminali» alla ricusazione di un giudice perché di origini messicane, dagli attacchi con chiari connotati razzisti rivolti ai giocatori di football neri all’equiparazione dei manifestanti antirazzisti e dei suprematisti bianchi in seguito alle violenze di questi ultimi a Charlottesville.
Ognuna di queste e di altre sparate del genere, e la loro sequenza, sono ormai già tali da privare di ogni autorità morale il presidente in carica, se l’avesse mai avuta, anzi non sa cosa sia, ma all’istituzione stessa, alla stessa presidenza degli Stati uniti.
Il picconatore di Washington sta mettendo a dura prova la solidità delle basi istituzionali degli Usa, anche se la loro tenuta è ancora tale da reggere l’urto: ma rispetto a quali e quanti ulteriori shock, e per quanto tempo ancora?
Il problema di carattere istituzionale, non più solo politico, si pone fin dal giuramento presidenziale, ma ora, a solo un anno da quel giorno, diventa «il problema» ineludibile per la democrazia stessa degli Usa. Perché il razzismo, che pure è un tratto saliente di un lungo pezzo della storia americana, oggi sdoganato e sbandierato dal vertice istituzionale assume caratteri dirompenti e potenzialmente deflagranti in una società come quella americana.
Il battere continuamente il tasto razziale, come registro principale, può trovare ascolto e apprezzamento nella base bianca, ma divide e frammenta un paese che col tempo ha cercato una via evolutiva come società plurale delle tante diversità, contrastando il più possibile, tra tante contraddizioni, il razzismo che esiste e resiste, specialmente quello nei confronti della comunità africano americana.
E pluribus unum, il motto nazionale, diventa una presa in giro, con un presidente che insulta parti consistenti della sua nazione. Inoltre, legittimato e agito dall’alto, il razzismo priva dell’autorità morale non solo il presidente pro tempore – e come si è detto, alla lunga, l’istituzione stessa – ma anche l’America come potenza globale. È un bene che questa maschera cada? Certo, ma non al prezzo dello scoppio di una guerra civile come quella che promette l’irresponsabilità di questa presidenza.
GUIDO MOLTEDO
foto tratta da Pixabay