Donald Trump, resta come «intruso» alla Casa bianca, ha probabilmente i giorni contati, anzi ricontati. Gioca a golf, minaccia, prepara i ricorsi e, reparandosi al peggio, rimuove il capo del Pentagono. E mentre gli americani che hanno votato Biden giustamente ancora festeggiano in piazza, negli stessi luoghi protesta anche l’anima dura della destra che grida ai brogli. Ma che succede nel mondo rispetto a questa elezione presidenziale anomale, visto che come più volte è stato commentato, le presidenziali degli Stati uniti equivalgono a quelle del mondo intero, sono decisive per gli orientamenti e le strategie di ogni Paese e di ogni consesso internazionale? Insomma Trump «come fa ad ignorare il mondo» che riconosce Biden, si chiedeva ieri il Washington Post. Ma Trump, il populista eversore di Manhattan, è stato davvero solo un «intruso» per il mondo che, invece, in buona parte – non parliamo solo dei leader populisti che ora sanno che possono uscire di scena -, ha partecipato, subìto e condiviso, anche tacendo, la sua leadership?
Da questo punto di vista insieme a scontate reazioni, accadono pronunciamenti tutt’altro che omogenei e spesso inattesi. I due grandi Paesi «nemici», la Russia e la Cina, che hanno sperimentato direttamente la strategia isolazionista ma economicamente aggressiva dell’«America first», significativamente aspettano in surplace, se non la nomina di gennaio, almeno qualcosa di più ufficiale. Perché quella strategia che ha arrecato tanto danno al mondo globalizzato ha però portato vantaggi- all’economia statunitense.
A Wall Street, che ora brinda alla sua sconfitta come brindava alla sua vittoria quattro anni fa, ne sanno qualcosa.
Così, era attesa la reazione, ma non così immediata e univoca, dei Paesi dell’Unione europea che ognuno per sé ma in blocco, si sono tutti congratulati con Joe Biden; un blocco unitario d’intenti per il quale ha giocato sicuramente un ruolo diretto Angela Merkel; qui e là con toni più o meno evidenti da «orfani della Nato», tutti allegramente inconsapevoli che l’Ue non ha una politica estera e continuerà a delegarla alla Nato.
Ma sicuramente inaspettate sono state le congratulazioni a Biden del premier britannico Boris Johnson, che deve tutta la sua fortuna politica proprio all’intruso della Casa bianca. Senza il sostegno di Trump alla strategia unilaterale della rottura dell’unità europea con la Brexit, vista anche come esclusivismo atlantico nel rilancio del rapporto storico tra le due nazioni, Johnson non avrebbe fatto nulla. È una evidente contraddizione che riapre i giochi e la credibilità di una Brexit di fatto mai conclusa.
Quanto alla Nato, traspariva la gioia dalle parole di Jamie Shea ora responsabile della Pianificazione politica dell’Alleanza atlantica ( era l’ineffabile portavoce che definiva «effetti collaterali» le stragi di civili provocate dai bombardamenti aerei sull’’ex Jugoslavia nel 1999): «tutto è pronto» per rilanciare con Biden il ruolo dell’Alleanza, con un nuovo e più aggressivo allargamento della Nato a Est, con grande spolvero nelle nuove crisi «arancioni», e soprattutto in pompa magna in Ucraina, così pelosa e compromissoria per lo stesso Biden che frequentò a lungo l’ambigua e nera piazza Maidan. Certo, c’era da aspettarsela la gioia della Nato, in crisi di ruolo e di identità, a pezzi in alcuni scenari come la Turchia dove è praticamente esploso. Con un Erdogan baluardo atlantico ma in pieno rilancio ottomano e che ormai fa di testa sua; ma il Sultano, interlocutore dell’Europa per Libia e migranti, è inviso a Biden che, quando era vice di Obama, si accorse del suo collateralismo con l’Isis nello scenario del massacro in Siria, alla cui destabilizzazione gli Stati uniti e non solo hanno attivamente lavorato. Per poi lasciare le macerie a Putin – per decisione di Obama con i colloqui del caminetto nella Sala Ovale della fine del 2015 – e alle forze che sono rimaste a contendere in armi l’Isis tutt’altro che sconfitta: i curdi – abbandonati da tutti – , gli iraniani e gli hezbollah, considerati «terroristi».
Altra ambiguità sostanziale, riguarda l’Afghanistan dove l’intervento Nato e Usa, sostenuto sempre con voto bipartisan, dura da 19 anni, con risultati drammatici quanto a vittime civili e a soluzione politica del conflitto, e con l’avvio da parte di Trump, di un accordo di pacificazione con i Talebani che non a caso si sono dichiarati a favore di una sua rielezione.
Davvero inaspettato è invece l’atteggiamento camaleontico del premier israeliano Benjamin Netanyahu, che ha quasi subito riconosciuto la vittoria di Joe Biden. Certo si può permettere di salire sul carro del vincitore, forte delle dichiarazioni del nuovo presidente americano che non rimetterà in discussione la decisione presa dal sodale Trump di spostare l’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, riconoscendo così questa come capitale d’Israele nel disprezzo delle storiche Risoluzioni dell’Onu.
Ma ora Biden ha davanti la svolta del «patto di Abramo», il più grande sostegno arabo ad Israele che mai sia stato costruito e sulla pelle dei palestinesi, che vengono cancellati come popolo e come questione – per la quale né l’Ue né gli Usa pre-Trump hanno mai trovato una vera soluzione. È un patto che ha al centro il ruolo, economico e militare, dell’Arabia saudita. La considerazione è importante perché sono due le agende che realisticamente Biden riaprirà positivamente per necessaria continuità obamiana: quella di Cuba, dopo la storica visita del 2016 a L’Avana – ma certo non quella del Venezuela -, e quella del nucleare civile dell’Iran, legittimato con lo storico accordo dei «5+1» del luglio 2015 con protagonismo sempre di Obama, ma che è stato stracciato da Trump. Allora, come farà Biden a riaprire – se mai vorrà, come chiede il presidente Rohani – all’accordo con l’ Iran e a conservare allo stesso tempo gli accordi che esaltano il ruolo strategico nell’area dell’Arabia saudita, nemico giurato di Teheran?
I guasti profondi prodotti dall’«intruso» sono innumerevoli, ma mentre Trump giocava con i destini del mondo, tanti, troppi tacevano, sopportavano o ne traevano vantaggio. Non basta scendere subito dal carro del vincitore. Non c’è solo la pandemia che dilaga. Le «nostre» guerre, con le loro rovine e con la disperazione umana di chi le fugge, restano tutte sotto i nostri occhi.
TOMMASO DI FRANCESCO
Foto di Gordon Johnson da Pixabay