Buongiorno America! Ciò che sembrava impossibile s’è realizzato e ha lentamente preso forma nella lunghissima notte elettorale appena trascorsa: Donald Trump ha superato i 270 voti per accedere all’elezione a presidente degli Stati Uniti.
Lo ha fatto conquistando stati che erano appannaggio dei democratici da molto tempo e, soprattutto, riuscendo ad intercettare il consenso di larghi strati della classe media e dei più poveri che in questi decenni sono diventati tali grazie alle politiche liberiste che Hillary Clinton interpretava benissimo con la sua nota vicinanza agli ambienti di Wall Street e con la promessa della continuità rispetto all’amministrazione Obama.
Il turbocapitalismo trova in un suo figlio prediletto, in un magnate, un miliardario nazionalista e autarchico, il nemico che, da destra, mostra una speranza sociale al proletariato nordamericano.
Hillary Clinton, invece, nonostante tutte le sue materne rassicurazioni sul tenere la barra della grande nave stellata dritta e salda, sui rapporti internazionali da coltivare sempre con grande diplomazia, sul salario sociale e su altre promesse di tassazione dei redditi alti, non è riuscita ad espugnare la diffidenza di milioni e milioni di americani che in lei hanno visto soltanto la forma di un apparato politico prestato al potere economico.
Quando Bernie Sanders ha perso le primarie del Partito democratico, forse Hillary avrebbe potuto conquistare una speranza di arrivare a Washington nella sala ovale se avesse proposto come suo vice presidente proprio l’unico senatore del suo partito che si dichiara convintamente socialista.
Bernie Sanders aveva trascinato abilmente il consenso dei giovani: lui, un anziano, un piccolo padre che stava sfuggendo al marchio della consuetudine e che stava rompendo degli schemi, così come, dal settore opposto, quegli stessi schemi li mandava in frantumi una furia pseudo-fascisteggiante aprendo una contesa aspra dentro ai repubblicani.
Ma Hillary Clinton ha puntato soltanto ad ottenere l’appoggio del senatore del Vermont, a trasformarlo in un trascinatore di voti sociali dentro ad una proposta nettamente opposta, legata ad un liberismo proposto in salsa moderata nei toni, ma pur sempre liberismo, ricetta indigesta, come si è visto, per decine di milioni di americani.
Il “fenomeno Trump” era prevedibile, era scongiurabile. Oggi è una realtà con cui tutto il mondo dovrà fare i conti. Per prima quella Unione Europea che vorrebbe stipulare i trattati commerciali del TTIP che, paradosso dei paradossi, proprio un miliardario figlio del capitalismo, rifiuta e sostituisce con una politica commerciale unidirezionale: una nuova forma di protezionismo delle merci e dell’economia che veda gli Stati Uniti al centro dell’espansione e del dominio commerciale esportativo e non viceversa.
Proprio le borse, i mercati, la finanza puntavano invece su una Clinton capace di tutelare i loro privilegi e i rapporti globali col resto del mondo. Cercavano quella continuità, quella stabilità che ora, quasi certamente, con la rivoluzione conservatrice di Trump non avranno.
Ed, infatti, sono iniziate ad aprire al ribasso le borse asiatiche. E tutto questo è frutto di un malessere sociale che si trascinava da tempo. La vera vittoria di Trump risiede in ciò: nell’impoverimento del popolo americano.
Non si può comprendere questa vittoria, se non si fa una analisi di classe della società americana e se non la si estende al resto del mondo: laddove crescono malessere, disagio, povertà, indigenza, in quei luoghi (quindi quasi ovunque nel pianeta) avanzano le forze xenofobe, razziste, populiste e si fanno largo con argomenti sociali laddove dovrebbe invece essere la sinistra a farlo, a proporsi come alternativa vera, anche democratica, al liberismo, al capitalismo accelerato ed esasperato dalla finanziarizzazione e dalle speculazioni.
Sono proprio le ricette alla J.P. Morgan, quelle che richiedono la cancellazione delle tutele sociali dal testo delle costituzioni, come nel caso della nostra Italia, a provocare i peggiori disastri in termini di trasformazione politica delle nazioni da regimi democratici (anche se apparentemente tali) ad oligarchie, scivolando verso pericolose derive autoritarie.
Hillary Clinton rappresentava un esempio di questo composto di esigenze borsistiche, neoliberiste e rivolte soltanto alla sopravvivenza degli enormi privilegi accumulati nel tempo da una classe borghese alta che non vuole concedere nulla a quella media, che ignora volutamente la situazione dei nuovi, moderni schiavi del lavoro.
E’ la globalizzazione dei mercati che va in crisi e che cerca di aggrapparsi a quelle false sinistre rappresentate da chi si definisce “democratico” e fa politiche peggiori di quelle che avrebbero messo in essere i più accesi sostenitori del mercato capitalistico su ispirazione di una propria ideologia originante dal liberalismo.
Ora, il terrore ha preso e strappato quel po’ di anima che hanno i banchieri e i giocatori di borsa: Trump è una mina vagante, un’ingestibile presidente che governerà, addirittura, con un Congresso dalla sua parte, formato da una maggioranza repubblicana che né Obama e tanto meno Clinton avrebbero avuto.
Quindi, in teoria, Trump ha mano libera su ogni programma che voglia attuare. E, del resto, il suo partito, logorato in diciotto mesi di campagne elettorali primarie e poi presidenziali, cercherà di ricompattarsi dietro una vittoria veramente notevole in quanto a numeri assoluti di voti e a conquista di grandi elettori.
Dunque, buongiorno America! La notte si fa scura già al mattino. E l’avventura è appena cominciata…
MARCO SFERINI
9 novembre 2016
foto tratta da Pixabay