Quanto avrà potuto pesare, sugli oltre settanta milioni di americani che lo hanno seguito sulla ABC, il dibattito tra Donald J. Trump e Kamala Harris? Ovviamente si parla di spostamento di voti, di convincimento dei detrattori dell’uno e dell’altro, dei recalcitranti e di coloro che, con una invidiabile spiccata coerenza, saranno invece magari rimasti (come chi scrive) dell’opinione che dei due è preferibile il meno peggio, ma che arrivati al livello della Casa Bianca, le differenze non sono poi così tante.
Indubbiamente Trump è, con il suo vice Vance, la quintessenza di un conservatorismo retrivo che si nutre, però, di elemento di attualità, scendendo nelle profondità di un consenso vasto tra una larga fetta di proletariato moderno di una America che sente lontana la guerra di Ucriana (che le è geograficamente più vicina) e più afferente quella di Gaza (che le è più distante) e che sempre di più scorge nelle differenze etniche anche i primordi, le genesi e gli sviluppi delle tensioni e delle problematiche sociali.
Essere poveri, quindi, nell’America di Trump è una colpa se non si è completamente americani come lui e il suo vice intendono questa completezza quasi razziale. I democratici, come tutte le forze para-progressiste che si richiamano alla necessità della preservazione e dell’ampliamento dei diritti civili, incespicano in quanto ad uguaglianza nel momento in cui parlano degli altri diritti: quelli sociali. E quando si riferiscono alla pace e alla guerra come a due elementi quasi sostanzialmente paritari da far prevalere a seconda degli interessi della grande Repubblica stellata.
Per cui, anche nel primo confronto tra i due aspiranti capi della Casa Bianca, gli elementi palesemente distintivi tra Trump ed Harris sono i diritti fondamentali dell’essere umano e del cittadino, le basi della civiltà, verrebbe da postulare come sintesi titolante un qualsiasi quotidiano progressista. Ma non appena si sale (o si discende, a seconda dei punti di vista…) lo scalino della politica interna sul piano sociale e quello immediatamente successivo della politica estera, ecco che le similitudini si riaffacciano sulla scena: la difesa del liberismo come elemento strutturale non è argomento da mettere in discussione.
Tanto gli economisti vicini a Trump quanto quelli che più propendono per un’equa distribuzione della fiscalità e delle risorse nazionali, quanto tra la complessa macchina amministrativa degli Stati dell’Unione, così come tra i parterre politici e l’intellighenzia che circonda i due grandi partiti, vige la teorizzazione della crescita e la misurazione del suo tasso annuale come metro fondamentale per bisogni universali che, proprio dal regime capitalistico, sono pervertiti e separati in una contesa che soggiace allo stato di ricchezza o di povertà. La stimolazione di una sempre maggiore crescita è il mantra di una visione liberal-liberista per la Harris, liberistissima per Trump che non mette affatto in discussione le contraddizioni del sistema.
Quella “difesa della Repubblica” a cui spesso la candidata democratica si richiama è meramente costituzionale e si ferma ai, pure importantissimi, diritti civili ed umani. Fondamentali per l’esistenza libra di un individuo come della collettività: ma svuotati di ogni significato dalla mancata correlazione tra diritti sociali e giustizia sociale. In sostanza, le belle parole di Kamala Harris ci convicerebbero molto, ma molto di più se fossero accompagnate da una politica in favore dei più deboli, dei lavoratori, degli sfruttati e non dalle promesse di crescita economica dovute al riarmo, al puntare ad un nuovo unipolarismo globale a guida statunitense.
Dal canto suo, Donald Trump fa più o meno lo stesso ragionamento, ma lo include in una odiosa retorica odiatrice, basata sulla divisione della working class tra autoctoni e migranti, tra americani e ispanici, tra uomini e donne, tra eterosessuali e persone LGBTQIA+, tra atei e credenti e, infine, tra poveri per colpa e ricchi per virtù. Essenzialmente la differenza marcatamente rilevante tra i due contendenti non è nell’essere l’uno il rappresentante di una classe e l’altro di un’altra, ma l’espressione di un diverso approccio interclassista che non garantisce, di per sé, nessuna realizzazione di condizioni di miglioramento dei servizi sociali, dell’impianto di uno stato altrettanto sociale che possa essere ripreso e rilanciato.
La vittoria di Trump, non c’è dubbio, sconquasserebbe un’America che è spaccata a metà e che oggi deve scegliere tra il vero conservatorismo oscurantita del magnate o il finto progressismo dell’ex procuratrice e vice di Joe Biden. Ciò che conta, votando Kamala Harris, è essere pienamente consapevoli che non si tratta di un consenso dato ad una leader della sinistra americana, ma ad un’esponente di un’area liberale certamente democratica e con un convinto piglio politico che muove al servizio dell’economia di mercato, di quella di guerra, di quella neo-imperialista che pretende la rivalsa degli USA sulle potenze emergenti.
A questo proposito, l’importanza che oggi riveste la Cina sul terreno dell’economia mondiale è una questione che entra a gamba tesa nella campagna elettorale statunitense. Da grande nazione in cui, ancora una ventina di anni fa, i salari erano alti ma non si prospettava ancora uno sviluppo così imponente – come lo era stato in Giappone – delle industrie più tecnologicamente avanzate. Dalla telefonia alle telecomunicazioni in generale, il governo di Pechino ha sostenuto e promosso, pur affermando di rimanere fedele ad una interpretazione e visione marxista della realtà, il più estremo gioco concorrenziale tra i giganti dell’hi-tech.
Con questi presupposti, anche un avversario piuttosto risoluto del colosso asiatico come Donald Trump ha dovuto ricalibrare i toni e mettere di più al centro della sua campagna elettorale temi che fanno presa di più sui contesti di politica interna piuttosto che sui rapporti tra Washington e il resto del mondo. La crisi del 2007-2008 ha, francamente, posto altri presupposti e ha mostrato come la fine dell’unipolarismo americano fosse già conclamatamente iniziata da un po’ di tempo. Solo che in pochi se ne erano obiettivamente accorti, seguendo la scia di un vissuto di rendita che si presupponeva inattaccabile per chissà quanti altri lustri.
Invece, da un lato la crisi globale e dall’altro l’espansione economica cinese, il crollo del mercato interno americano fu la prima delle conseguenza su vasta scala che causarono un ripensamento tanto delle posizioni democratiche quanto di quelle repubblicane. Dopo circa quindici anni da quella grande esplosione finanziaria, gli statunitensi si interrogano oggi su che modello di capitalismo preferire e non se superare o meno il liberismo che lo espande, lo regola, lo gestisce e lo introduce in nuovi ambiti globali. Per cui, la sfida tra Trump ed Harris, alla fine, è tra un modello di economia di mercato ed un altro. I diritti fondamentali di un essere vivente sono un contorno su cui si specula grossolanamente da un lato e cinicamente dall’altro.
Molti notisti e analisti economico-finanziari e politici rilevano che uno dei grandi problemi degli Stati Uniti d’America oggi è la creazione di una vera e propria classe dirigente all’altezza delle sfide tanto interne quanto estere. Gli inquilini della Casa Bianca sono anziani, sempre più anziani. E se non lo sono, paiono inesperti, inadeguati, inadatti al compito che li aspetta. Dal dibattito di alcuni giorni fa, va detto che Kamala Harris, se non si conoscesse il retroterra politico-culturale che la previene e la informa, ha certamente convinto un elettore progressista. Non fosse altro per il modo in cui ha ridicolizzato le oggettive baggianate del multimiliardario di estremissima destra.
Sullo sfondo, però, rimane un’America che monetizza tutto, in cui nulla si sottrae alla logica del mercato: per cui parlare di pubblico versus privato è fare discorsi selenici, incomprensibili per un ceto medio che è abituato a pagare per avere i propri diritti. Quello che preoccupa gli statunitensi è proprio la tenuta di questa economia che li depreda di tutto e che li fa, tuttavia, ancora sognare di essere la più grande potenza mondiale. A corollario di tutto questo stanno le diatribe e il chiacchiericcio televisivo ed internettiano sui complottismi evocati da Trump, su vere e proprie scempiaggini che vanno oltre persino l’indecenza del razzismo, della xenofobia, dell’omofobia e dei diritti delle donne.
Il trumpismo è una parodia dell’autoritarismo, ma può essere efficace e può, al pari di un Milei argentino, essere deflagrante nella confusa e pregiudizialmente ricchissima società americana. Per fare sì che un voto per Kamala Harris fosse davvero ben speso, da lei almeno si dovrebbe ascoltare un “cessate il fuoco in Palestina“, una critica nei confronti dell’espansionismo della NATO ad Est. Ma come pensare che questo sia possibile, visto che la linea dell’Alleanza atlantica è dettata direttamente dalla Casa Bianca? Non possiamo chiedere al ladro di derubarsi o al boia di impiccarsi da solo. Se c’è però un distinguo ulteriormente possibile tra Trump e Harris è la possibilità che il mondo progressista americano ha di influenzare questo voto e le politiche democratiche.
L’impianto “Make America Great Again” è impermeabile nei confronti di qualunque critica anche propositiva, anche provenienti da ambienti repubblicani – diciamo – “moderati” che, per l’appunto, si sono o si stanno schierando con Kamala Harris (il che la dice abbastanza lunga tanto sulle fantasiose accuse di socialismo inanellate dal magnate nei confronti della vicepresidente democratica o sul ritenerla per l’appunto esponente di una qualche forma di sinistra americana). Basta un nome per tutti: Dick Cheney.
Se si rapporta tutto questo ad una analisi prettamente macro-economica, si potrà azzardare una correlazione tra un idea di gestione liberista ancorata di più sulla centralità americana (Trump) che guarda al proprio interno e che considera i rapporti con i poli esterni e con i riferimenti politico-finanziari e militari come degli accidenti da gestire neocolonialmente e imperialisticamente, ed un’altra idea democratica che fa della globalizzazione dell’economia a stelle e strisce la grandezza statunitense ritrovata. Gli organismi del controllo finanziario globale dal Fondo Monetario Internazionale alla Banca dei regolamenti, passando per la Banca mondiale, puntano su una amministrazione che confermi essenzialmente questi presupposti.
La ricetta neoliberista è ciò che mette d’accordo, con sfumature differenti, repubblicani moderati e democratici progressisti. Il presupposto capitalistico non si discute. Di tutto il resto sì. La differenza tra i candidati alla presidenza è quindi variabilmente ancorata e dipendente alla conservazione del sistema delle merci e dei profitti, dello sfruttamento del lavoro come elemento prioritario di una economia totalmente privata. Lo spazio dello Stato in tutto questo è la gestione di ciò che viene deciso altrove.
MARCO SFERINI
12 settembre 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria