Trump e le paure dell’alta borghesia americana

Si ritrova ad aver paura l’alta borghesia più raffinata, cosmopolita, globalista, guerrafondaia del Pianeta, che ha fondato, in questi anni, la propria smisurata crescita di ricchezza sullo sviluppo illimitato...

Si ritrova ad aver paura l’alta borghesia più raffinata, cosmopolita, globalista, guerrafondaia del Pianeta, che ha fondato, in questi anni, la propria smisurata crescita di ricchezza sullo sviluppo illimitato di una tecnologia sottraente lavoro e “facente crescita” su smisurati profitti.

Una borghesia che – all’interno di se stessa –ha generato la classe politica più guerrafondaia della storia sulla base della nuova dottrina dell’esportazione della democrazia combattendo il terrorismo e strizzando l’occhio ai suoi finanziatori.

Così si evoluta /involuta quella classe auspicata e descritta da Madison dalla quale sarebbero sorti “lo statista illuminato” e il “filosofo benevolo” che avrebbero retto le redini del potere.

Idealmente “puri” e “nobili” questi uomini (le donne al tempo di Madison non erano contemplate, un punto da ricordare proprio nel giorno della “Women’s march) “contrassegnati dall’intelligenza, dal patriottismo, dalla proprietà e dall’indipendenza economica” avrebbe costituito un gruppo scelto di cittadini , la cui saggezza potrebbe distinguere meglio i veri interessi del loro paese, e che, per il loro patriottismo e il loro amore per la giustizia, saranno  disposti a sacrificare tali interessi momentanei o paralleli”.

Dall’utopia del Federalista e della sua anticipatrice teoria delle éelite (in allora, Mosca, Pareto e Michels erano lontani da venire) sono sorti alla fine, da un lato, il gruppo chiuso dell’establishment che ha prodotto i Bush, i Clinton e gli Obama e dall’altro, per la via dei “Tea party”, Donald Trump.

Nessuno estraneo all’altro: il tutto frutto delle degenerazione culturale, morale e infine politica delle classi dirigenti sfruttatrici.

Torniamo, però, all’attualità.

La paura genera paura e il ceto sottostante a quest’alta borghesia appena descritta ha deciso, improvvisamente, di “cambiare spalla al proprio fucile” e di affidare il paese dal quale dipendono le sorti di una buona parte del mondo, a un altro tipo di riccone che inaugurato il suo regno all’insegna di una dottrina apparentemente opposta: in luogo del globalismo l’isolazionismo; invece della libertà sconfinata di produrre tecnologia destinata all’individualismo il vecchio sapore delle ferriere (e relativi padroni), in luogo dell’e-commerce universalista il vecchio protezionismo dei dazi doganali.

In questo scenario domani camminerà con la storia (chissà quanto e chissà per quanto) l’idea dell’appeasement (nemmeno tanto cordiale, chissà?) con il nemico storico in un ritorno al bipolarismo, questa volta senza “cortine più o meno di ferro”, giudicando il colosso cinese un nemico e svalutando i tradizionali strumenti di difesa: l’alleanza militare atlantica, l’Unione Europea (nata e crescita come avamposto e sentinella USA, anche in campo economico a difesa – appunto – della finanziarizzazione globalistica).

Un radicale mutamento di scenario.

Se ne verificheranno concretezza modalità di realizzazione ed effetti pratici.

Nel frattempo però entrambi i poli d’attrazione, quello apparentemente scaduto della globalizzazione e dell’esportazione sistemica della guerra e l’altro apparentemente opposto del “protezionismo isolazionismo” (due spalle pronte ad accogliere il fucile della borghesia sfruttatrice) non appaiono in grado di affrontare le grandi contraddizioni emergenti nello scorcio del secolo:

  • a)    Quella tra la gestione del ciclo capitalistico in senso di finanziarizzazione globale com’è avvenuta dagli anni’80 del XX secolo in avanti e la probabile proposizione di una “logica dei blocchi” militari, politici, economici
  • b)    Quella del vero e proprio cozzo tra ricerca scientifica, tecnologia, produzione industriale, economia e politica che arriva a mettere in dubbio l’essenza della filosofia dello sviluppo che ha contrassegnato i progressisti e la sinistra fin dal tempo della prima rivoluzione industriale.
  • c)    Quella della complessiva assenza di un vero e radicale aggiornamento nella teoria delle fratture intorno ai nodi della differenza di genere, della questione ambientale in relazione ai temi del cambiamento climatico, del ritorno – nelle parti apparentemente più sviluppate – a rigurgiti razzisti molto forti ed evidenti nell’occasione dello sviluppo di inediti movimenti migratori
  • d)    Quella dell’evidente crisi delle forme politiche “classiche”della democrazia liberale. Un fenomeno che, dopo la proclamazione incauta della “fine della storia” al momento della caduta del muro di Berlino, adesso appare insidiata non soltanto dal già citato “protezionismo – isolazionismo” ma anche da forme profonde di integralismo alle quali pare che il capitalismo risponda con il restringimento dei meccanismi tradizionali nel nesso Parlamento / Governo in funzione di governabilità personalistiche sempre più ristrette nell’accentuazione della logica di dominio.

Si può dunque affermare che la storia sta affrontando un vero e proprio tornante, non una semplice svolta.

E’ venuta a mancare una visione liberatrice e illuminista di concreta della regolazione politica delle grandi contraddizioni, in modo da aprire la strada alla possibilità di una vera e propria transizione di sistema.

Un vuoto che potrebbe essere pagato a caro prezzo, nella responsabilità di incauti “progressisti” semplici imitatori dei disvalori introdotti dai fautori dello sfruttamento e della ricchezza predatrice.

FRANCO ASTENGO

24 gennaio 2017

foto tratta da Pixabay

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