Triplice miccia occidentale per la polveriera siriana

Il crocevia degli interessi del mondo intero sembra passare per la Siria. In realtà, in parte, è sicuramente così; ma questo lo si potrebbe affermare per qualunque altra parte...

Il crocevia degli interessi del mondo intero sembra passare per la Siria. In realtà, in parte, è sicuramente così; ma questo lo si potrebbe affermare per qualunque altra parte del pianeta che svolga un ruolo di intermediazione geopolitica: basti pensare ai canali: di Suez, di Panama 0 a mari come il Mediterraneo, oppure alle vecchie rotte di un tempo che hanno lasciato un segno anche nel presente. Tuttavia, la questione siriana, dopo la orrorifica guerra civile mai del tutto completamente sopita, è veramente un qualcosa di estremamente particolare.

Senza banalizzare, ma riducendo i conflitti ad un elenco tutt’altro che sterile, ecco come si presentava e come si presenta: esercito regolare siriano di Assad contro un po’ tutti; suoi alleati sono gli iraniani e i russi; i curdi, che controllano il nord-est del paese, lottano contro Assad e contro la Turchia, ma sono appoggiati (in parte) dagli statunitensi. Le milizie dell’ex Stato islamico sono ridotte ad una enclave minuscola ma, nonostante tutto, restano attive. Hezbollah ha dei battaglioni che sta provvedendo a spostare nel sud del Libano. L’Iran teme la caduta di Assad.

Ed Erdoğan preme, con le milizie insorte jihadiste, che hanno conquistato Aleppo e si dirigono verso il centro del territorio governativo, per un ridimensionamento in seconda istanze e per una caduta certamente in prima istanza di Assad, così da creare una sorta di protettorato sulla Siria del nord dove sono attive le milizie curde che sono considerate un prolungamento politico-militare del PKK e, quindi, dei terroristi. Il neo-ottomanesimo di questo sultanato moderno non esclude, nei nemmeno tanto fantasiosi sogni di gloria nazionalisti turchi, l’annessione di tutto il Kurdistan compreso tra Kobane e il confine iraniano.

Dal canto suo, Assad – sostengono i migliori osservatori di questa parte importante della politica internazionale – è deciso a mantenere l’asse privilegiato di quello che viene chiamato il “corridoio imperiale” del neo-persianesimo: da Herat fino al Libano, passando per Teheran, Baghdad e Damasco. Si vanno quindi ad incontrare e scontrare, nel contesto del martoriato territorio siriano, le alleanze strategiche tra il mondo sciita da un lato, gli interessi della Turchia dall’altro, quelli della Russia che vede come una minaccia l’espansione statunitense nella regione e la grande tragedia palestinese che, quindi, significa l’affermazione dell’imperialismo israeliano tutto attorno al Territorio occupato.

Donald Trump, oltretutto, mira a rafforzare proprio la presenza israeliana nel contesto descritto e, al contempo, quindi, a ritirare le truppe di Washington presenti in Siria, sostanzialmente a difesa delle truppe curde nord-orientali. Agli occhi dell’Occidente democratico e liberale, gli jihadisti siriani sono già proclamati come i “ribelli” coraggiosi, pronti ad accantonare il regime di Assad per sostituirlo con uno compiacente, magari anti-iraniano. Ed è per questo che, in risposta a questa preoccupazione – dal punto di vista degli ayatollah più che comprensibile – , Teheran ha inviato le sue truppe, prontamente bombardate dagli americani al confine con l’Iraq.

Aleppo, la seconda città della Siria, rischia di divenire un terreno di battaglia che la insanguinerà e la impoverirà per molti mesi. Putin, dal canto suo, rimbrotta il presidente turco, richiama lo schema del vertice di Astana (a tre con l’Iran) e continua a sostenere Assad nel contrastare l’avanzata jihadista. Questa “Hay’at Tahrir al Sham” (“Organizzazione per la liberazione del Levante“) è praticamente la sezione siriana di al-Qaeda, quindi di matrice salafita nell’ambito dell’Islam sunnita. Un po’ da tutti i governi filo-americani è considerata una delle formazioni terroristiche più pericolose e attive nella regione, perché divenuta militarmente molto potente.

Se volessimo fare un paragone, ambisce a gareggiare, su questo terreno, come il Partito di Dio in Libano. Avere, quindi, un ruolo parastatale e, col sostegno turco, indubbiamente questa aspirazione si fa, di giorno in giorno, sempre meno ideale e sempre più concreta. Il ginepraio siriano è un groviglio di interessi difficili da sbrogliare: Israele occupa dal 1967 le alture del Golan, mentre il fianco destro del territorio governativo è stato il terreno di sviluppo interstatale del DAESH e dell’instaurazione di un regime teocratico-totalitario che ha fatto orrore persino ai peggiori tiranni del pianeta.

Dietro l’avanzata delle truppo di Hay’at Tahrir al Sham non c’è solo Ankara. Ma, come è facile dedurlo, vi sono anche Washington e Tel Aviv. Dove c’è un qualche tentativo di destabilizzazione regionale con riflessi globali, c’è la Repubblica stellata a guidarlo più o meno direttamente, più o meno da lontano. Senza alcun intento complottista, riesce poi così difficile immaginare che anche dietro il tentativo di colpo di Stato in Corea del Sud, con il presidente Yoon Suk-yeol (feroce anticomunista, ammesso che i coreani del nord possano, governativamente, dirsi tali…) che impone la legge marziale, non vi sia qualche ispirazione d’oltreoceano?

Ma tornando alla questione mediorientale, non c’è dubbio sul fatto che questo mandare avanti gruppi militari parapolitici, che hanno come intento la restaurazione di una qualche forma di altamente destabilizzante presenza qaedista in Siria e nel Levante (quindi verso i tanto instabili territori del martoriato Iraq), ha come scopo lo sparigliamento delle carte iraniane: l’interesse comune tra il diffidente amico turco e i nemici giurati USA-Israele, si sostanzia nell’attacco per procura della milizie jihadiste. Non importa se si elogiamo come “ribelli” dei nuovi tagliagole in stile ISIS: tutto va bene, se il fine è raggiunto.

Le ambizioni di Erdoğan si congiungono all’interesse dell’odiato nemico isralieliano e del circospetto, guardingo e sornione asse nordatlantico di cui la Turchia fa parte. La domanda che a questo punto qualcuno potrebbe farsi, illudendosi di risolvere la questione con una semplice divisione di campi etici, è: ma da che parte stanno i buoni e da parte stanno i cattivi. Il fatto è che qui di buoni non ve ne è nemmeno l’ombra: ogni formazione di governo, ogni Stato, ogni gruppo paramilitare, organizzato o riorganizzato in fretta, gioca un ruolo in uno scacchiere in cui le regole sono completamente saltate e le guerre si improvvisano perché i primi a saltare sono stati i vecchi apparati di potere.

Le guerre del Golfo, la questione israelo-palestinese, il dramma del popolo curdo, la tragedia dell’alimentazione del terrorismo qaedista prima e di quello statislamista poi, sono tutte, ma proprio tutte espressioni di una complessiva instabilità creata ad arte per stabilire egemonie imperialiste nella regione mediorientale: l’Iran da un lato, la Turchia da un altro lato, Israele e Stati Uniti (con l’Arabia Saudita, che però ora guarda ai BRICS, così come gli Emirati Arabi Uniti) da un altro lato ancora. La linea dell’Eufrate separa, in teoria, le forze militari curde del PKK da quelle governative di Assad: se proprio volessimo vedere un qualche tratto etico in questa vicenda, questa potrebbe essere una linea di demarcazione.

Ma la caduta di un tiranno come Assad, paradossalmente, oggi non farebbe altro che peggiorare la condizione dell’intero quadro regionale: è vero che Erdoğan sostiene la causa palestinese, ma è pure vero che gli altri sostenitori della stessa sono gli iraniani che con Ankara hanno rapporti non troppo virtuosi. La Turchia è l’ambiguità fatta regime politico e Stato. Amica dell’Occidente nordatlantico, paese NATO, candidata per entrare un giorno nell’Unione Europea, con sogni di diventare un neo-sultanato ottomano, con un confine orientale che pullula di conflitti: compresi quelli del Caucaso. La vicenda armena, dai primi del Novecento fino ad oggi, rimane drammaticamente emblematica.

I tempi della Conferenza di Sanremo (siamo nel 1920) quando si stabilivano le reciproche aree di influenza tra Gran Bretagna e Francia su Siria, Iraq, Palestina e Transgiordania, sono ormai parte di un passato che davvero appare lontanissimo: retaggio della Prima guerra mondiale, gli accordi  Sykes-Picot miravano allora ad escludere dall’area qualunque presenza della sconfitta Sublime Porta ottomana. Oggi, a distanza di poco più di un secolo, si riaffaccia proprio nella stessa porzione di terra la propensione turca a riprendere il controllo di un quadrivio di strade d’interesse che dalle montagne del Kurdistan iraniano arrivano all’Eufrate.

Dalla zona di Idlib le milizie di Hay’at Tahrir al Sham si sono dirette a sud e hanno, senza incontrare troppa resistenza da parte di un esercito regolare che fa fatica a riprendersi dal colpo ricevuto, occupato Aleppo e ora si dirigono Hama che è uno dei punti cardine dei crocevia dei rifornimenti e delle truppe di sostegno inviate dall’Iran ad Assad. La mossa è, quindi, abbastanza chiara. Isolare Damasco e fare tutte le pressioni del caso per costringere il dittatore a piegarsi e, magari a lasciare il potere. Rimangono a difenderlo Putin e Khamenei, mentre storiche inimicizie sembrano passare in secondo piano (per intenderci tra turchi e curdi) nel nome di un comune interesse anti-Assad.

Quello che appare piuttosto evidente, dopo una timida analisi della geopolitica attuale della questione siriana, inserita ovviamente nel contesto pieno dei conflitti mediorientali, è che l’ultimo regime baathista (di una seppur timida e sbiadita origine socialista) presente nell’area della Mezzaluna fertile è un problema in quanto espressione di una volontà di indipendenza rispetto alle mire imperialiste occidentali e ai sogni di neo-ottomanesimo del presidentissimo turco. Il carattere politico del regime, nella sua originaria espressione anche ideal-ideologica, non è, come evidente, il punto dirimente della questione.

Semmai lo è il fatto che Assad gode ancora del sostegno interno di una buona parte delle élite di una società che è atomizzata, frammentata e di cui è molto difficile presagire i comportamenti in caso di sostituzione del governo e del presidente con qualche fantoccio occidentale. Per quanto detestabile sia il regime iraniano, si deve convenire su un fatto ormai consegnato alla recentissima storia della guerra civile siriana: furono i battaglioni del generale Qassem Soleimani a sbarrare la strada verso Aleppo e Damasco allo Stato islamico. Quattro anni fa gli americani lo uccisero mentre si trovava a Baghdad. Tutto, alla fine, torna sempre…

Oggi questi vecchi e nuovi jihadisti sembrano finanziati, sostenuti e condotti per mano verso le porte della capitale siriana per mettere fine ad un tentativo di completa destabilizzazione dell’area non riuscito interamente una decina di anni or sono. Cicli storici di una attualità del passato che si ripresenta impietosamente e che, soprattutto nell’era del multipolarismo, rinnova le sue più peculiari caratteristiche imperiali: da più fronti, come si è visto. Ma pur sempre di imperialismo si tratta. Inutile dire (o forse in qualche modo utile lo è, per non essere troppo cinici), che il tributo più costoso all’ennesimo conflitto lo pagheranno i civili.

Conseguenze oggettive, effetti collaterali li chiamavano, li chiamano e continueranno a chiamarli. Un disprezzo per la vita umana e per una civiltà che è degno del peggiore riflesso condizionato della modernità di una contesa mondiale distruttiva e priva di qualunque principio etico, di qualunque ricorso o riferimento al diritto internazionale. La voce dell’ONU, almeno per ora, non si è ancora sentita. E anche se le Nazioni Unite dovessero parlare, sarebbero tacciate, magari non di antisemitismo questa volta, forse, anzi certamente, di collaborazionismo con la dittatura di Assad.

Quando la verità diventa così sottile, esile e impercettibile, ogni ricostruzione degli accadimenti è appesa al filo della Storia scritta non tanto dai vincitori, quanto dai prevaricatori e dai prepotenti di turno.

MARCO SFERINI

4 dicembre 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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