Trent’anni dopo Fiuggi: Giorgia Meloni erede di Gianfranco Fini?

I dibattiti televisivi aiutano a ricordare che sono trascorsi trent’anni dalla “Svolta di Fiuggi“, quando Gianfranco Fini e Giuseppe Tatarella promossero, insieme ad una nutrita schiera di conservatori dai...

I dibattiti televisivi aiutano a ricordare che sono trascorsi trent’anni dalla “Svolta di Fiuggi“, quando Gianfranco Fini e Giuseppe Tatarella promossero, insieme ad una nutrita schiera di conservatori dai tratti meno ideologici di quelli presenti nel vecchio Movimento Sociale Italiano – Destra Nazionale, il congresso storico che sancì il passaggio dal partito neofascista di Almirante ad Alleanza Nazionale.

La Storia racconta dell’ispirazione primigenia, una sorta di illuminazione sulla via di Damasco, data da un articolo di Domenico Fisichella su “Il Tempo“: lì si faceva appello ad una nuova stagione della destra italiana e Fini se ne fece interprete, attirandosi, naturalmente, tutta una serie di strali da parte degli irriducibili di Salò, del fascio dei primordi e, non di meno, di qualche tonalità nazionalsocialisteggiante. Tutte micro scissioni che si palesarono durante e dopo la svolta termale: Fiamma Tricolore, Movimento Fascismo e Libertà (un ossimoro già nel nome…), tanto per citare quelle più corpose.

Pino Rauti e Giorgio Pisanò non si potevano riconoscere nel nuovo corso partitico, mentre, del tutto probabilmente, avrebbero magari anche accettato di fare insieme la strada in un nuovo cammino politico per una destra dalla molteplice colorazione e dalle tante sfumature: l’imprenditorialismo liberista berlusconiano, il padanesimo secessionista bossiano e piccoli satelliti ex democristiani ed ex socialisti craxiani. In quel 1995, nel pieno di uno sciame sismico che scosse la vita sociale, politica ed economica dell’Italia, non era forse ancora del tutto evidente cosa la “Svolta di Fiuggi” rappresentasse su un periodo di più lungo termine.

Nelle interviste rilasciate in questi giorni da Gianfranco Fini, si ricava l’impressione che quel momento fu anche un crinale, un passaggio quasi obbligato dalla necessità per la destra di uscire dall’angusto angolo in cui era rimasta, pur sopravvivendo negli anni Sessanta e Settanta all’ondata moderna delle rivendicazioni studentesche ed operaie, all’antifascismo stesso, valore fondante della Repubblica, e ad una borghesissima scia del riflusso, tutta inserita nel quasi post-ideologico degli anni Ottanta.

Ma, fu, per l’appunto anche quello e qualcosa di più. Perché, col senno di poi, in epoca meloniana, dopo berlusconismo, renzismo, salvinismo, draghismo e chi più ne ha più ne metta, qualcuno inizia a domandarsi se da quella svolta non prese l’avvio felice del ritorno, invece, di una piattaforma valoriale missina sotto le mentite spoglie del fratellitalismo che conosciamo oggi. Per essere sinteticamente chiari e netti: Giorgia Meloni oggi sarebbe a Palazzo Chigi se Gianfranco Fini non avesse trasformato l’MSI-DN in Alleanza Nazionale?

Tutt’altro che ingannevole o pregiudiziale, la domanda rimane aperta ed ognuno può, a seconda anche della propria cultura e tendenza politica, darle una risposta tanto differente quanto inequivocabilmente giusta, perché al soggettivismo qui si sfugge con grande difficoltà. Rimane oggettivo, però, il fatto che nel corso di trent’anni, dopo la fine del Pentapartito e la diaspora dei grandi partiti di massa, non escluso il PCI che – va detto – ebbe una sorte diversa rispetto a quella tangentopolizia della balena bianca e del garofano, nei sommovimenti a destra si è andato formando un consenso ritrovato.

Questo consenso è stato costruito non di sana pianta, ma in parte recuperato, ed in parte inventato sulla scorta delle nuove generazioni di arrampicatori antisociali e di profittatori di ogni sorta, da un berlusconismo che ha plasmato la nazione e l’elettorato, illudendo entrambi tanto collettivamente quanto singolarmente di trovarsi in una nuova età prospera dell’oro, dopo la caduta del socialismo reale e il disvelamento della sinistra come un qualcosa di arretratamente antimodernista nel suo essere progressista.

Il compromesso ricercato dai nuovi socialdemocratici occhettiani ha aperto la strada ad una prossimità con le istituzioni pagata a duro prezzo nella vicinanza rispetto al mondo del lavoro e del disagio sociale che, di lì a poco, con il ripetersi delle crisi del neocapitalismo liberista, con uno Stato sempre più in mano alla concezione privata, sarebbe stato l’obiettivo primo della rivincita dell’impresa sulla propria forza-lavoro. La destra di Fini aveva, quanto meno al principio della sua svolta, una pulsione governista. Almeno tanto quanto il PDS di Occhetto.

Poi, mutatis mutandis, l’Italia ha rivelato ancora una volta la sua fisionomia reazionaria gettandosi nelle braccia di una borghesia rivoluzionaria più del proletariato e capace di adeguarsi ai nuovi corsi dell’economia. E, nonostante ciò, l’impietoso confronto tra le innovazioni tecnologiche e gli investimenti del capitale in Italia e quelli dei poli produttivi statunitensi o anche soltanto d’oltralpe oggi più di ieri ci parla dell’insufficienza di una politica economica all’altezza del suo ruolo di “classe dirigente“.

Se la destra si è trovata, da allora, alle prese con un imprenditore-politico (e viceversa), la sinistra del dopo-PCI si è messa a fare i conti con un realismo e con un pragmatismo che ha danneggiato tanto le idee quanto la materialità dei fatti. La risposta alle ansie di futuro date da una involuzione economica pregnante di globalizzazione divoratrice delle piccole tasche è stata più efficace da destra: più seduttiva, veloce, immediata. La retorica razzista, eredità del fascismo, era passata dall’antisemitismo all’odio nei confronti degli albanesi, oppure dei marocchini.

L’MSI che Fini di lì a poco avrebbe traghettato in AN parlava il linguaggio almirantiano riassunto nella formula: “Non rinnegare, non restaurare“. Sulla soglia dell’ambiguità permanente, la politica dei post-fascisti è andata consumandosi in un progressivo accesso alle stanze del potere sull’onda dell’alleantismo certo e sicuro con Forza Italia e Lega offrendo alla conservazione reazionaria del Bel Paese una nuova opportunità di revanchismo. Alleanza Nazionale avrà, come progetto, dalla sua la sequela di dati elettorali che conforteranno la tesi di Fini dell’allargamento della base del consenso.

Ed in effetti, dal ristretto cinque per cento classico del vecchio MSI, si passerà alla doppia cifra ben presto. Gianfranco Fini dirà al Congresso di Fiuggi: «Siamo in presenza di una strategia. Non è un partito nuovo, ma è una politica: chiamare a raccolta tutte quelle categorie, quei ceti economici, quegli spazi della società che oggi sono liberi perché non hanno più dei referenti». Molto più elegantemente rispetto a Berlusconi e al suo video appello (tuttavia efficacissimo…), con un tono da politico consumato, il futuro Presidente della Camera dei Deputati manderà quindi a dire ad una buona parte dell’elettorato: ecco il nuovo partito dei conservatori liberali.

Un partito buono tanto per gli ex missini quanto per chi si definisce genericamente di destra. Una alternativa netta all'”alleanza democratica” che, già in allora, si prospetta rispetto al trittico BBF (Berlusconi, Bossi, Fini). Poi, con il passare dei decenni, anche quella spinta innovatrice (per quanto può esserlo un tragitto di strada che porta dal neo-post-fascismo al neo-nazionalismo seppure liberal-liberista…) è venuta meno, perché sono cambiati tanto i contesti nazionali (nei rapporti di forza economici e sociali) quanto quelli internazionali.

Il consenso della nuova destra meloniana è, senza dubbio, in parte opera della pervicacia della attuale Presidente del Consiglio: che ha uno spirito di intuizione molto sagace, sintonico con il malpancismo della gente, interattivamente in grado di entrare nelle nuove asperità discordanti di un bassocetismo che si ingrossa grazie alle nuove povertà crescenti; ma che non avrebbe potuto arrivare al 30% dei voti (di destra) senza che prima glieli avesse capitalizzati Berlusconi da un lato e Salvini dall’altro.

Nel momento in cui il Capitano leghista crolla sotto il peso dei mojito estivi, tre quarti dell’elettorato leghista passa armi e bagagli con il nuovo corso di Fratelli d’Italia che, differentemente dalla sua prima apparizione politica, rimette la fiamma tricolore nel simbolo e così pare ritornare al passato che non passa. Che cosa succede? Dopo Fiuggi ed altri lavacri perbenisti si torna alla “casa paterna” che Fini aveva abbandonato? Non proprio. Perché l’operazione è dettata dalla necessità di legare attorno a sé un consenso che si nutra tanto del passato quanto del presente-futuro.

Giorgia Meloni non vuole rifare il MSI, troppo minoritario, fuori dall’arco costituzionale, datatamente consegnato alla Storia della seconda metà del Novecento italiano. Ma vuole mandare un messaggio: io sono ciò che sono perché, pur di seconda o terza generazione, provengo da quella storia che non restauro ma non rinnego. Ed è per questo che è praticamente impossibile per la leader di Fratelli d’Italia a capo del governo della Repubblica dirsi, per essere realmente, antifascista.

Bene che affermi, nel comunicato ufficiale sulla Giornata della Memoria, che l’Olocausto fu «un piano, quello condotto dal regime hitleriano, che in Italia trovò anche la complicità di quello fascista, attraverso l’infamia delle leggi razziali e il coinvolgimento nei rastrellamenti e nelle deportazioni»; meno bene però, prima di queste dichiarazioni, che il suo governo rimpatri con un volo di Stato un torturatore di migranti ricercato dalla Corte Penale Internazionale dell’Aja… Viviamo un po’ tutti di contraddizioni, ma in quanto a queste la destra, pure moderna, conserva un primato davvero di eccellenza.

Rispondere, pertanto, alla domanda se Giorgia Meloni avrebbe avuto tutto questo successo senza Fiuggi non è poi così difficile se si tenta non “la” risposta, ma “una” risposta: probabilmente no, non avrebbe potuto penetrare nella scorza dura del postfascismo per farlo diventare forza di lotta e di governo assieme. O forse avrebbe avuto ancora più fortuna di Fini se avesse tentato la medesima sorte ma molti anni dopo. La Storia però non vive di se e di ma e non la si fa nemmeno, come basi di proiezione dell’immediato futuro, con i forse e con i sebbene.

Dunque, ciò che si può constatare oggettivamente, sulla base dei fatti che conosciamo in ordine logico e cronologico, è che la nuova destra del XXI secolo è, oltre ogni ragionevole dubbio, figlia legittima di quella novecentesca. Ma ha saputo essere – come si usa dire oggi – “resiliente“; al punto tale che predomina sul centro politico, un tempo impossibile da pensare come marginale in una coalizione tanto conservatrice quanto progressista. Mentre la sinistra non è mai stata in grado di operare questo scavalcamento, la destra lo ha saputo fare. E non la destra soltanto liberale, come potrebbe essere Forza Italia.

La destra propriamente “di destra“, come appunto è Fratelli d’Italia, in aperta competizione con la Lega nell’essere rappresentante di un mondo tutt’altro che trascurabile di sentimenti, pulsioni e anfratti ideologici in cui sedimentano pregiudizi, preconcetti e ancestralità provenienti dal post-fascismo e da una idiosincrasia niente affatto negata nei confronti dei regimi democratici concepiti secondo lo schema non della tolleranza, ma dell’aperta solidarietà sociale, civile, culturale e morale.

Giorgia Meloni esiste perché ha talento. Ma non esisterebbe senza la compresenza nel nuovo simbolo del partito tanto della dicitura altra dal MSI quanto della fiamma tricolore altra dal mero conservatorismo liberale. Una contraddizione vivibilissima per i moderni patrioti: gente per cui la patria è sinonimo non più di corporativismo, anti-atlantismo, persino anticapitalismo… Oggi l’internazionale nera conquista il mondo (o almeno ci prova) nel momento in cui rinverdisce il peggio del passato chiamandolo diversamente.

Milei, Trump, Musk, Orbán, i neonazisti tedeschi, i neofalangisti spagnoli et similia, non hanno bisogno, come non ne ha Giorgia Meloni, di svolte di Fiuggi per sembrare diversi da ciò che realmente sono: la memoria si consuma, i tempi cambiano col cambiare dei regimi economici entro il capitalismo liberista che li gestisce sempre più con difficoltà. Ma tutto si tiene, e si terrà a lungo, senza una nuova stagione del progressismo, di una sinistra europea e mondiale che si metta di traverso e che, insieme alle forze della Natura (veramente rivoluzionarie), rovesci i piani di questi profittatori…

MARCO SFERINI

28 gennaio 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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