La chiamano “informazione“. Eppure sarebbe meglio che venisse apostrofata nel suo esatto contrario aggiungendo il prefisso “dis” davanti a quello che molto spesso è il vero significato della costruzione di teoremi antisociali, di scenari immaginari che prendono tridimensionalità, fuoriescono dalle pagine dei giornali e dallo scorrere dei siti Internet grazie ad abili collegamenti di singoli episodi, di fatti occasionali che solo completamente slegati fra loro.
Tuttavia, può accadere che il ripetersi in determinati lassi di tempo, per lo più molto stretti, di alcuni eventi simili, crei questo perverso cortocircuito, questa intenzionalità che accresce la potenza del giornalismo nel prodursi in costruttore di una pubblica opinione per l'”opinione pubblica” medesima e quindi “informa i fatti” e non “sui fatti“.
Osserviamo alcune composte, in parte, da tante altre notizie per l’appunto sintetizzabili in un unicum grazie alla loro somiglianza: questa sì data dai fatti, ma non per questo frutto di una connessione primaria che l’ha generata come in un seno primordiale dentro al contesto sociale in varie parti del Paese o del mondo.
Primo fatto: due ragazze vengono investite e uccise a Roma mentre attraversano una grande strada di scorrimento. L’investitore non si ferma, fugge, si costituisce il giorno dopo. Omicidio plurimo stradale. Ovvio. Gli accertamenti del caso sono tutti in mano alla Magistratura, ma già ci divide – seppur lievemente – una “opinione pubblica” che assegna la colpa evidente al guidatore ma che valuta, al pari degli investigatori e dei giudici, se attribuire qualche responsabilità anche alle giovani che avrebbero forse sfidato la sorte, magari passando col rosso del semaforo.
I giornalisti vanno sul posto, chiedono ai giovani romani che cosa accade solitamente di notte in quel luogo e loro rispondono che sì, che spesso si fanno vere e proprie “gare di attraversamento” quando il semaforo è rosso, per vedere “se si riesce a farcela“. A non essere centrati in pieno da un’automobile che, comunque, siccome siamo in centro città, non dovrebbe superare i 50 chilometri orari.
Così la costruzione della pubblica opinione dell'”opinione pubblica“, la cosiddetta “narrazione” dei fatti viene ad essere pervertita dalla voglia di schierare le partigianerie e di generare quella curiosità morbosa che istituisce tanti tribunali del popolo in tante città d’Italia: si discute, si sentenzia, si attribuiscono colpe, discolpe; talvolta, quando la discussione è gestita in modo un po’ onorevole per il rispetto che si deve alle vittime e alla giustizia stessa, si parla magari di attenuanti e si cerca di aprire un varco da cui entri un garantismo che, in fondo, è alla base del nostro diritto.
Alto Adige, Südtirol. Una compagnia di 80 tedeschi sta rientrando in albergo: hanno passato una serata in discoteca e sono per lo più giovanissimi. Stanno accalcandosi per salire sui pullman quando un’auto, che va parecchio veloce, con a bordo un ventisettenne con un tasso alcolemico quattro volte superiore ai valori previsti dal Codice dalla Strada li investe in pieno, ne fa una drammatica carambola uccidendone sul colpo sei e ferendone altri undici.
Hanno tutti tra i 18 e i 25 anni. Una strage, titolano i giornali. Giustamente. Il giovane investitore si ferma, non fugge come quello romano. In preda allo shock va a vedere cosa ha combinato: si siede al bordo della strada, quasi confuso tra la calca di soccorsi che arrivano. Ai vigili del fuoco lo dice subito: “Sono stato io“. Minaccia di volersi suicidare, comprende la gravità della situazione. La cancelliera tedesca Merkel invia messaggi di sconforto e di amarezza per l’accaduto.
Subito dopo si scatenano i “social network“: qui non ci sono attenuanti possibili, salvo venire a sapere ore dopo che il giovane alla guida, oltre ad essere ebbro di alcool, probabilmente era anche in preda ad una adrenalina causata dalla rabbia per la perdita della fidanzata e dalla voglia di spingere quell’acceleratore per provare la sua auto nuova sulle belle strade montane.
Terzo episodio. Senigallia, sulla strada provinciale Acerviese, un altro uomo positivo all’alcool test investe e uccide due donne di 34 e 4o anni, appena uscite anche loro dalla discoteca. Le vittime camminavano sul ciglio della strada quando la macchina è piombata loro addosso. Giurateci: anche in questo frangente, l'”opinione pubblica” si dividerà – come sempre – tra chi assegnerà l’attenuante e chi invece la negherà proprio su questo particolare del limite della sede stradale, come se fosse un elemento cui si potesse riferire una specie di “concorso di colpa“…
Ma per un attimo prescindiamo dai particolari dei casi che abbiamo citato: proviamo a fare il gioco dei giornali, delle televisioni e dei mezzi di informazione in generale. Il gioco è questo: approfittare della sequenzialità degli eventi, del loro essersi prodotti in così poche ore di distanza l’uno dall’altro dal consentire la composizione del quadro delle verosimiglianze in merito alla costruzione del teorema secondo cui sarebbe in paurosa risalita l’eccesso di alcool collegato alla guida di automezzi.
Chi beve non deve guidare. Non è una raccomandazione soltanto: è una norma del Codice stradale, è buon senso, è rispetto civico verso gli altri e verso sé stessi. Ma le regole e il buon senso non bastano quando, per l’appunto, i casi singoli non sono assimilabili e contenibili in un unico paniere del semplificazionismo: l’alcool è una delle cause, ma la formazione degli eventi è sempre differente, quantunque un fatto possa somigliare sempre più ad un altro fatto e apparire come collegato quando, invece, è semmai una linea parallela che viaggia accanto ad un altra senza intersecarsi del tutto.
Ma la disinformazione serve. Serve a fare “audience“, a vendere più copie di giornali, ad avere più “click” sui siti Internet. L’utilità cinica di questo ingranaggio perverso attiva tutta una serie di meccanismi spietati che non si possono fermare se non tramite decisioni singole: quelle di rifiutarsi di partecipare al “gioco del colpevole e dell’innocente“.
Tutto questo allontana i cittadini da un ritorno alla cultura vera e propria, perché li rende bulimici di notizie che sono per la maggiore sensazionalismi, urla e non ragionamenti, strepiti e non prese di consapevolezza delle dinamiche veramente sociologiche che andrebbero indagate a fondo, che richiedono però tempo e pazienza. E i mass media non possono concedere a nessuno tempo e pazienza: se le notizie un tempo venivano “strillate” per strada, oggi vengono urlate dalle televisioni, con accanimento, sapendo che la folla si nutre di sofferenza altrui; sapendo che ama vedere le lacrime e non la gioia, che preferisce il lutto alla felicità.
La felicità non fa notizia. Il dolore sì. Ecco la vera, grande tragedia dei tempi moderni dell’informazione e di chi la riceve e la brama come Gollum bramava il suo “tessoro“.
Ma la disinformazione serve pure a far mostrare i muscoli ad un certo settore politico di destra che chiede pene sempre più severe e leggi magari speciali pure in questo contesto. Serve ad inasprire i sentimenti contrastanti appunto dell'”opinione pubblica“, a gestirla, manipolarla, a creare quel senso di rabbia e frustrazione che sono necessari per creare eccitazione, malcontento, allontanando proprio i cittadini dalla ricerca delle cause tanto specifiche quanto più latamente generali dei fenomeni che si intersecano e che creano delle similitudini che in parte possono rimanere esclusivamente tali, in altra parte possono invece dare vita a studi anche sociologici di comportamenti che aiutano la comprensione della vita quotidiana, delle trasformazioni del Paese e del contesto globale in cui viviamo.
Secondo i dati dell’ISTAT, infatti, non è tanto nelle città che si registrano aumenti di sinistri stradali con eventi infausti come le morti: bensì sulle autostrade e sulle strade di scorrimento extraurbane.
Nei casi che abbiamo citato, infatti, possiamo osservare come due di essi trattano omicidi stradali fuori dal contesto urbano e solo quello romano riguarda una grande via della capitale.
Ciò significa che una vera “opinione pubblica“, formata da una corretta esposizione dei fatti, dovrebbe saper discernere i contesti, comprenderne le cause e gli effetti senza produrre accostamenti impropri, senza disporre sentenze, giudizi e anatemi che, il più delle volte, risultano espressioni di pancia che nulla hanno a che vedere con la realtà dei fatti.
Siamo nel campo delle pregiudizialità e vi rimaniamo appieno se ascoltiamo la retorica di tanti quotidiani e di tante riviste. Per carità di quello che volete, di patria, di dio, di ogni cosa che abbia un valore per voi, abbandonatevi all’oblio in questi casi: lasciatevi trasportare anche dalle emozioni, visto che non siete (non sono e non siamo) giudici, ma non fatevi infarcire di tanta falsa banalità interpretativa.
Sospendiamo i giudizi, obliamo i programmi che parlano di giustizia, di cronaca nera: un cannibalismo giornaliero che dalle colonne dei giornali e dalle urla degli invitati nei programmi televisivi non fa che alterare il senso civico di una società incattivita, fatta di sentenziatori, così lontana non tanto da un primordiale comunismo libertario che osserva e prova da ciò a cambiare la forma mentis attraverso la trasformazione sociale, quanto dalle stesse parole di un pontefice come Giovanni XXIII.
In Australia sta bruciando mezzo continente: le immagini dei koala e dei canguri che vengono salvati dalle foreste in fiamme straziano davvero il cuore. Piccoli animali che ricercano rifugio assetati dalle borracce dei ciclisti che li incontrano mentre attraversano la strade per sfuggire ai roghi: marsupiali che saltellano non come Skippy, per esplorare e cercare cibo, ma per salvarsi. Ultima forma vivente di luoghi dove sono più di 100.000 gli sfollati e dove si contano decine di esseri umani morti e chissà quanti animali che hanno subito la stessa sorte.
Una primavera secca, alte temperature e forti venti hanno propagato gli incendi e nel Galles del Sud la tragedia è praticamente sotto gli occhi di tutti.
Qui sì che la narrazione deve mostrare l’insieme formato da tanti roghi, ma – ulteriore salto di qualità nella diffusione delle informazioni (che si piccano di essere pure scientifiche) – deve evitare ad esempio le foto che sembrano satellitari e che sono invece una elaborazione computerizzata, una simulazione della luminosità sprigionata dalle fiamme che nell’immagine del continente australiano sembra quella notturna delle grandi metropoli mondiali che sfavillano nel buio dell’universo in cui la Terra si proietta.
C’è sempre una via di fuga dalla verità. Anche innocente, come quella appena descritta. Serve il coraggio della coscienza, l’amore per l’inalterabilità dei fatti per evitare che si vedano le luci colorate al computer piuttosto del cielo rosso ripreso dai vigili del fuoco di Sydney…
La manipolazione dell’informazione, l’influenzabilità dell'”opinione pubblica” non sempre seguono le logiche del capitalismo; ma anche i roghi australiani sono frutto di una torsione antiecologica prodotta dall’esasperazione della ricerca del profitto ovunque: dal sensazionalismo dei giornali allo sfruttamento delle risorse del pianeta, proprio come se non ci fosse un domani. Che infatti rischia di non esservi per davvero.
MARCO SFERINI
7 gennaio 2020
Foto di Karolina Grabowska da Pixabay