Deleuze e Guattari scrivono in “Che cos’è la filosofia?” (Einaudi, Torino 2002): «Può darsi che credere in questo mondo, in questa vita, sia diventato la nostra impresa più difficile o l’impresa di un modo di esistenza da scoprire oggi sul nostro piano di immanenza». Il tentativo di arrivare alla radice dell’esistenza per l’esistenza, del pensiero per il pensiero, dell’essenza per l’essenza, quindi della constatazione del molteplice mutevole intrinseco carattere di ciò che siamo, di ciò in cui siamo (il mondo, l’universo, la vita) e di ciò di cui cui siamo fatti (gli astroficisici direbbero “della materia delle stelle“) è in parte questo processo di scoperta dell’immanenza.
I due filosofi francesi si riferiscono a tutto questo andando a scandagliare i meandri di una millenaria storia (non storicisticamente intesa) di ciò che viene sempre e soltanto interpretata come il contrario della trascendenza. Ciò che è immanente, infatti, è proprio della materialità dell’essere. Ciò che è trascendente, prescinde dall’esistente, dal concreto, dal tangibile e può esistere, concettualmente, oltre il fisico e la fisica, oltre le dinamiche dialettiche dei rapporti di causa ed effetto in quella che noi definiamo, per antonomasia, “la Realtà” (rigorosamente maiuscola la erre!). E l’approdo cui giungono è quello della constatazione del movimento.
Beninteso, non come spostamento di un corpo nello spazio-tempo, nel qui e ora; semmai come azione-relazione che lo interpone con gli altri soggetti, che lo mette a confronto con una condizione di comunanza in cui può riscontrare delle similitudini, contaminandosi e scoprendo mondi nel mondo, realtà nella realtà che, sovente, viene univocizzata, resa graniticamente solida e impermeabile a qualunque tipo di penetrazione antistorica, antistatalista, antisociale e anticivile (non incivile). La ricerca della pietra filosofale dell’immanenza è una sorta di espressione quasi artistica della filosofia (Deleuze).
L’immanenza, che si tenta di descrivere (per carità, non certo di risolvere in poche righe… ma poi non è certamente la quantità di parole a dare alle stesse un plusvalore gnoseologico in tal senso…), è l’irraggiungibilità non di un concetto, ma di una vera e propria qualità dell’essenza tanto nostra quanto del mondo circostante, più o meno autocosciente. La decostruzione dell’irregimentazione del linguaggio, passando dal verticalismo agreste della metafora dell’albero dalle grandi chiome che indirizza pensieri, parole e opinioni (mea et vestra culpa…) all’orizzontalismo (decisamente molto meno burocratico, statalizzante e istituzionalizzante) del “rizoma“, dovrebbe essere il primo passo per un cambiamento che, tuttavia, l’essere umano tende a rifuggire.
Noi evolviamo (non in senso progressista e nemmeno scientificamente tale) nel momento in cui ci rendiamo conto che «…il divenire e la molteplicità sono un’unica, una stessa cosa…». Che cosa significa? Che nella staticità delle convinzioni dell’abitudinarietà millenaria delle regole, delle tradizioni e dei dettami “di Stato“, si finisce per smarrire l’essenza che ci caratterizza e che la libertà di espressione ha un significato (e diviene anche un significante metafisico che ispira molta oratoria e molta retorica, purtroppo, soprattutto politica) solamente se viene sottratta al consueto, al possibile, al verificabile sul piano etico del “buon senso” tanto personale quanto comune.
Nel momento in cui, ogni giorno, ci rapportiamo col limitrofo, dovremmo tenere conto del fatto che nessun dettame esiste se non come protesi invisibile della molteplicità dei nostri rapporti e che tutto è convenzione tranne la materia stessa che agisce, opera e, appunto, “evolve” nella trasformazione continua, in un divenire che, in quanto tale, è apparentemente immaterialità grazie alla materialità in cui si tiene e si svolge in una serie di progressione di fatti che abitano dei contesti e dei contesti che sono, a loro volta, il frutto di un mutamento di quel “divenir-animale” che è un altro concetto destrutturante.
Lo è, quanto meno, per la filosofia dell’allora presente e passato di Deleuze e che non manca, anche in Kierkegaard, di avere qualche termine di paragone e di riscontro utile per le successive analisi. Quello che Carmelo Bene riprenderà dal filosofo francese, il “deserto” in cui ci troviamo, non è una rassegnazione all’impossibilità dell’essere per l’essere, dell’arte per l’arte, del capolavoro di sé stessi prescindendo dalla realtà e quindi provando l’unicità assoluta dell’immanenza di un individuo o di un qualcosa che anche vagamente gli assomigli.
Si potrebbe pensare piuttosto alla raffigurazione un po’ sbarazzina del gioco infantile (e per questo molto diverso dallo scherzo dell’adulto) come capacità di stupirsi davanti all’inconoscenza di tanta parte di ciò a cui tentiamo di dare un senso da adulti. Il bambino, come l’ape che vola sui fiori o il cane che scodinzola, vive molto di sé stesso, incontaminato ancora dagli stimoli esterni che gli sottrarranno, con lo scorrere del tempo e l’acquisizione empiricamente esperienziale dei cambiamenti oggettivi intorno a lui (oltre che in lui), parte della sua primordiale unicità, rendendolo comunque incosciente di una coscienza che proverà a dominare il suo angolo più genuinamente buio e naturale.
L’immanenza è propria dell’essenza del bambino, almeno fino a quando non inizia a parlare e tentare di prendere confidenza con “la Parola” (anche qui il maiuscolo è d’obbligo e necessario) scoprendo di essere costretto a venire a patti con il linguaggio altrui e, quindi, inconsapevolmente nella maggior parte dei casi, di essere parlato poi da altri, di essere agito da situazioni che sono, oggettivamente, nel rapporto di causa ed effetto tipico di una dialettica della materia a cui non si può sottrarre. Ma nella primissima parte della nostra esistenza, noi siamo – in un certo qual modo – piuttosto vicini all’immanenza di noi stessi: in quanto dobbiamo scoprire e non dobbiamo essere scoperti.
Scoperti dal resto del mondo e scoperti da noi stessi, giorno per giorno, quando, molto retoricamente, ci diciamo con inevitabile abitudinarietà: «Io mi conosco, io so chi sono, io so cosa voglio, io so cosa dico». Ecco, qui l’immanenza, nel divenire adulti, si trasfigura pesantemente nel carico atlantico sulle proprie spalle di un mondo che noi sappiamo essere insopportabile ma che, istintivamente, sentiamo come l’ambito in cui siamo costretti ad esistere e e, quindi, mettiamo in pratica l’operazione inversa rispetto all’immanenza: diventiamo trascendentali, perché prescindiamo dalle peculiarità che ci caratterizzano per essere resilienti nel nome dell’accettazione sociale, della condivisione degli spazi.
In tutto ciò, come sottolineano molto acutamente sia Deleuze sia Bene, il linguaggio ricopre un ruolo fondamentale. L’affermazione perentoria di sé stessi (“Io“) è una proposizione ontologica che ci colloca in una temporalità definita e che ci separa dall’immanenza vera e propria, quindi dall’unicità a cui si dovrebbe fare riferimento. L’Io vive nel possibile e nel compenetrabile. Il non affermarsi in quanto soggetto, riconoscendosi solamente in quanto tale, così come il gatto fa il gatto e la tartaruga fa la tartaruga, sarebbe un modo per recuperare alla trascendenza (che ci fa credere di elevarci a livelli di concezione universale dettati da grande acume e intelligenza) un pizzico di immanenza.
Evidentemente non siamo “animali non umani” e, quindi, la nostra capacità raziocinante, la nostra auto-consapevolezza di noi stessi e del mondo che ci circonda ci inducono a trattare tanto l’immanenza dell’essenza quanto la trascendenza del pensabile come un tutt’uno, pur mettendo in contrapposizione questi due concetti in una forma dualistica che li costringe ad una eterna dicotomia che ne ha falsato, tanto nell’uno quanto nell’altro caso (materialità o idealità) il forse più genuino, originale ed originario significato. Un significato che sta – come asseriva Lacan – in bocca al significante che lo esprime.
Noi parliamo e pensiamo di essere, in noi stessi, immanenti, mentre il nostro pensiero ci trascende. Lo fa grazie alle esperienze accumulate che, infatti, il bambino, almeno nel suo stadio infantilissimo, non ha: quindi il piccolo è molto vicino alla sua vera natura, mentre noi ce ne differenziamo via via che acquistiamo in età e scendiamo a compromessi con l’istituzionalizzazione dell’esistenza, che è categorizzazione artefatta dei rapporti, che è stabilimento delle leggi, delle convenzioni e di tutta una serie di metafisicità che devono, nel nome della regolamentazione generale delle comunità, avere un riscontro nel reale e un collegamento col fisico, con il concreto.
Per questo il linguaggio è importante nel rapporto tra immanenza e trascendenza. Perché è uno spazio di mediazione, di stabilimento della nostra incoscienza come della nostra coscienza rispetto a persone, cose, realtà e persino con l’immaginazione che ci sovviene nell’attimo in cui, chiudendo gli occhi, proviamo ad astrarci dal sensibile e ad onirizzare da svegli ciò che sentiamo esternamente. Pensare ad occhi chiusi o cercare di scorgere delle immagini è istintivamente il processo di collegamento con un inconscio che rimane impenetrabile ma che – come osserva Deleuze – è stato trattato dalla psicoanalisi seguendo troppe volte il viatico dell’essenza della quotidianità formale.
Scrive Kierkegaard: “Impariamo dal giglio e dall’uccello, quali maestri, il silenzio, impariamo a tacere. Infatti è senz’altro il parlare che distingue l’uomo dall’animale, e […] ancor più dal giglio». Non per evitare di sproloquiare, di dire assurdità, ma per ritrovare, appunto immanentemente, la nostra essenza nell’abbandono, nel deserto dell’esistenza, nel buio dove, al riparo dai condizionamenti esterni, l’inconscio continua a farci per come siamo, con tutti quei caratteri peculiari che chiamiamo “difetti” e quelli che chiamiamo “pregi“, frutto anch’essi di una istituzionalizzazione sociale delle nostre specialità uniche che devono trovare per forza un posto nella “comprensibilità” comune.
Questo è l’esatto contrario di ciò che, invece, il bambino è rispetto all’adulto: la maledizione dell’esperienza (ma non per questo condanniamo l’empirismo ad una damnatio memorie che non gli si addice proprio) finisce col tradire il concetto di immanenza e farne, per l’appunto, l’eterno contrario di trascendenza; parimenti di quest’ultima tratteggia i contorni di sempre e soltanto qualcosa di empireo, iperuranico, intangibile e inconsistente. Ma trascendere dovrebbe, prima di tutto, voler significare ridiventare dei giocherelloni fancilleschi che si divertono con le parole e le svincolano dalle premesse e dalle posticipazioni, dal preambolo e dalle conclusioni.
Ogni parola ha diritto di essere il più immanentemente vicina al concetto di Parola. La Parola in quanto tale. Ciò che ci differenzia dagli animali non umani che, tuttavia, per quanto noi ci si ostini a non considerare tale la cosa, comunicano con grande efficacia i loro sentimenti, le loro affinità così come le loro differenze e distanze. Qui entreremmo nella considerazione di qualcosa che include la parola in quanto verbo: saremmo nella storia della ϕωνή (phoné) in quanto suono, rumore. Altro capitolo che, magari, un giorno, caso mai, ci divertiremo (con il maggiore grado di immanenza possibile riguardo proprio al nostro divertimento) nel trattare.
MARCO SFERINI
8 dicembre 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria