Dopo quaranta ore di tortura, gli aguzzini al soldo della Santa Inquisizione calano Tommaso Campanella dall’alto dove l’hanno issato. Legato per i polsi, sospeso sulla “culla di Giuda“, in quella che diventerà famosa come la “tortura della veglia” (“tormentum vigiliae“), il filosofo amico di Telesio, è costretto a fingersi pazzo per potere essere sottratto a quella pena che i cristiani dell’epoca gli imponevano.
Chi era riconosciuto folle non poteva essere affidato al braccio secolare della giustizia per essere magari arso sul rogo.
La Chiesa voleva poter condannare gli eretici impenitenti coscienti e fieri di esserlo; oppure ne pretendeva l’abiura e quindi la sottomissione al proprio credo, alla propria catechesi e, quindi, al potere che, unitamente a questa, rappresentava nel contesto sociale. Campanella resiste per quasi due giorni a quella drammatica tortura: ossa, muscoli, tutto gli si lacera. Sotto di lui si è creato un lago di urina: l’unica libertà che gli è consentita. L’odore forte si mescola a quello dell’umidità delle mura, del legno degli strumenti sopra i quali si trova.
Persino delle corde ammuffite che, tuttavia, lo tengono sospeso tra la vita e la morta, anche se, paradosso dei paradossi, sono proprio quelle ad essere, tra gli altri, uno dei mezzi con cui l’Inquisizione tenta di separarlo dalla libertà di pensare, di interpretare, di conoscere, di criticare.
E’ quella la partita che si gioca tra il filosofo e la Chiesa. E’ quello il grande scontro tra dogmatismo e interpretazione dell’esistente: oltre la mediazione dell’infallibilità pontificia, al di là della concezione assoluta della presenza della verità solo ed esclusivamente nel grembo materno dell’ecclesia.
Dunque, Campanella, dopo quaranta ore viene slegato. Le cronache riferiscono che, proprio ad uno dei suoi torturatori, abbia detto queste prime parole: «Che si pensavano che io era coglione, che voleva parlare?».
Senza mezzi termini, senza infiorettature. Qui viene fuori tutta la forza d’animo dell’uomo che non cede soltanto per preservare il suo orgoglio intellettuale, ma prima di tutto perché la sua sfida, quella che accetta, suo malgrado, è tra l’essere libero o suddito, tra l’essere uomo di fede o uomo di un potere che utilizza la fede per preservarsi e perpetuarsi.
Il pensiero libero somiglia qui ad una libertà piena, pura, innocentissima, quasi ancestralmente inconsapevole delle difficoltà che può trovare sulla sua strada se tenta la sortita di oltrepassare l’argine grande della dottrina imposta con quella catechizzazione che è uno dei mezzi con cui non solo il papato, ma anche le fedi luterane e protestanti nelle loro particolari differenziazioni da Stato a Stato, cercherenno di portare verso sé stesse una condiscenza di massa che, necessariamente, dovrà anche essere obbedienza nei confronti delle istituzioni regie, imperiali e repubblicane.
I catechismi sono, nel ‘500 e nel ‘600, non quel benevolo insegnamento della dottrina secondo le consuetudini e le tradizioni storiche che si sono via via andate stratificando nel corso dei secoli e che, qundi, hanno dato forma e sostanza al principio culturale di uno Stato, uniformandone l’istituzionalità e, pertanto, il suo diretto rapporto con la popolazione, bensì esattamente l’opposto: rappresentano il salto ulteriore che fa la lettura delle Sacre Scritture scelte tra le tante a disposizione dai tempi della dominazione romana in Palestina.
Un salto che riguarda molto direttamente il progressivo allontanamento delle chiese cristiane dai valori originari del messaggio di Gesù, per come ci è stato tramandato tanto nei Vangeli canonici quanto in quelli considerati “apocrifi“. Qui sta la prima dicotomia evidente tra verità e potere.
Si può, ovviamente, discutere quanto si vuole sulla veridicità di quanto narrato nei racconti degli evangelisti e dei loro, più o meno, coevi colleghi, ma, se si prende il racconto per quello che è in termini di comunicazione etico-sociale, non è difficile rendersi conto che tra le parole di Cristo e la loro messa in pratica da parte del potere che si fonda sul Cristianesismo, c’è un rapporto di progressiva esponenziale dicotomia.
Scena simile a quella della tortura di Campanella è quella che si svolge a Roma. Come per il filosofo calabrese, anche per il nolano Giordano Bruno, dopo la cattura da parte della Serenessima Repubblica di Venezia, il passaggio nelle segrete dell’Inquisizione pontificia. Sono tante le correlazioni tra queste due esistenze esaltanti e travagliate al tempo stesso.
Qui però facciamo un salto indietro nel tempo. Piccolo, di solo qualche decennio. Perché Bruno è nato due decadi prima di Campanella ma quel ‘500 è, nel giro di così pochi anni, indistinguibile tra il prima e il dopo. Tutti e due, si diceva, hanno in comune molto: dall’origine meridionale all’ordine religioso. Sono domenicani. Addirittura frequentano gli stessi conventi, ma non si incrociano per via della differenza di età.
L’aristotelismo è un po’ il filo conduttore del primo approccio dei naturalisti che, con i mezzi propri forniti dal pensatore di Stagira, tentano una spiegazione del mondo, dell’esistente, del fisico e del metafisico ma non riescono ad arrivare oltre quel punto di difficoltà che avevano intuito esistere tanto per Aristotele quanto per loro: provare con la logica a dirimere i problemi affidati all’irrazionalità, al meta-fisico, alla trascendenza del sapere e del conoscere.
La logica, apprendono dall’osservazione empirica tanto Telesio quanto Campanella e Bruno, spiega ciò che già ha una sua regola. E lo spiega per noi, è un metodo di conoscenza deduttiva (oltre che scientifico-matematica) ma le è, proprio per questo, impossibile tendere anche soltanto ad una risolvibilità dei grandi temi che la filosofia pone da sempre: cos’è l’essere, cos’è l’esistente, cosa sia quindi la materia in sé stessa, noi, la Terra, il Sole, i pianeti, l’Universo.
E, ovviamente, visto che la logica aristotelica non può risolvere questi problemi, e visto altresì che una armonia esiste nel tutto e nel rapporto tra il singolo e questo, i naturalisti fanno quello che capita sovente anche a noi: immettono nella Natura il senso del sacro, anzi lo scoprono e lo riscoprono, perché, osservando attentamente, i pensatori ellenici sono i primi immanentisti della stoeia della filosofia occidentale.
Uno dei drammi dei naturalisti è non poter coniugare il divenire del mondo di Aristotele con un creazionismo che, in quanto esso stesso emanazione di Dio, è insito nell’esistente, è parte del processo di continua trasformazione del tutto. Questo accostamento tra il naturalismo dello stagirata e una sorta di intepretazione teologico-cosmogonica, inquieta non poco la Chiesa di Roma e, non da meno, come abbiamo già sottolineato, anche le altre confessioni cristiane.
La libertà di pensiero che Telesio, Campanella e Bruno adottano nello scrutamento meticoloso dei rapporti naturali, nella dinamica intercorrente tra causa ed effetto nei processi che ogni giorno si verificano e si ripetono incessantemente, prescindendo quindi anche dalla stessa presenza umana nell’ordine delle cose, è una minaccia che non è tollerabile. Bruno studia ma non si accontenta di sapere ciò che tutti possono sapere mediante la catechesi o l’interpretazione più generale che il papato dà tanto delle Scritture quanto dei fatti del mondo.
Così come, guardando all’insù scopre tutto un nuovo Universo in cui proiettare l’uomo, aprendogli infiniti mondi da pensare, esplorare e immaginare, rovesciando così il punto di vista tolemaico fino ad allora avuto in merito alla centralità della Terra nell’interezza della creazione e, quindi, del sistema di rivoluzione dei pianeti intorno a sé stessa e non al Sole, allo stesso tempo dirige la sua osservazione critica su ciò che lo circonda e, rimanendo ed uscendo in egual modo dal perimetro aristotelico, sembra quasi affermare la centralità dell’argomento eristico.
L’argomento per cui, ricordiamolo, non c’è creazionismo, perché dall’essere nulla si genera, in quanto già è, così come non può nascere dal non-essere, proprio perché non è. La Natura, dunque, viene vissuta come espressione di Dio, in quanto è Dio stesso che si manifesta in tutto ciò che esiste. L’essere umano, ovviamente, compreso, così come ogni altro essere vivente. Il rischio sottile di questa duttilità del pensiero naturalistico è il fascino dell’eristica aristotelica, del princio di evoluzione permanente, come elemento portante di una filosofia che prescinda dall’aspetto creazionista.
Il che, magari per un libero pensatore che insegna a Parigi e che fa il precettore per i nobili veneziani può sembrare anche conciliabile con un cattoliceismo che si innova e si ammoderna in questo senso, ma per il papa e per i principi della Chiesa non è affatto così. Non è solamente una corrente di pensiero che ne contraddice un’altra.
Qui si tratta della messa in discussione di tutto un mondo che è stato plasmato dal potere religioso e che, quindi, dipende dalla Chiesa nella misura in cui questa riesce a dimostrare (ovviamente senza doverlo fare, ma adoperando l’autorevolezza che le viene dai millenni) di essere il lenitivo contro il mal di vivere, contro le sofferenze e le ingiustizie che le producono e le acuiscono. La rivoluzione copernicana che Bruno condivide, nel senso che fa partecipi coloro che incontra del suo nuovo punto di osservazione del tutto, è quindi la libertà di pensiero di per sé.
Quando il Nolano ne “La cena delle Ceneri” riconsidera l’Universo senza la gerarchizzazione delle stelle, senza una loro dipendenza teleologica, senza attribuire all’antropocentricità terrestre il ruolo di prima, unica forse, espressione della volontà creatrice di Dio, finalizzata quindi allo scopo di dare vita all’essere umano in cui si riconosce per forma e per ispirazione, non opera soltanto una demitizzazione del tolemaismo. La confutazione del geocentrismo non è un semplice e solo atto di scienza.
Da lì si parte, come nuovi liberi pensatori, per mettere in discussione praticamente tutto: tradizioni, relazioni interpersonali, socialità, individualità, concezioni filosofiche e, naturalmente, i pilastri della religione. La libertà che Bruno, Campanella e Telesio scoprono non è un’eresia anticattolica se non nella misura in cui il potere della Chiesa viene minacciato perché, scoprendo le imprecisioni e le incongruenze tra Vangelo e dottrina dei secoli seguenti, tra il principio e l’azione, supportate ora da evidenze scientifiche, la nudità reale è conoscibile per tutti.
Non serve più che sia un bambino, in mezzo alla folla, a gridare che, in questo caso (e ce ne perdonerà Handersen) il papa sia nudo davanti alla Storia e alla sua stessa storia cristiana: tutti possono considerare la realtà per quello che è, sapendo che nessuna certezza è mai veramente tale se non quando la si sperimenta praticamente, attraverso l’esperienza, con un metodo empirico che si fa avanti nel progredire di sempre più fini tecnologie che supportano quelle che, altrimenti, rimarrebbero solo ipotesi.
Il disordine universale è raggruppato entro i cardini di un ordine divino, in cui Dio stesso è parte della Natura, è in ogni cosa, è tutto perché non può esserne distaccato. Creatore e creazione coincidono e, così, non c’è il sopra e non c’è il sotto, non c’è l’avanti e non c’è l’indietro. Non c’è un punto dell’Universo in cui si possa stabilirne il centro. Il centro è ovunque, perché l’infinitudine dell’esistente sembra essere un dato impossibile da controvertire praticamente.
Non soltanto mediante l’osservazione pura e semplice, ma anche provando a guardare nei futuri cannocchiali, negli ancora più futuri telescopi. Tutti darebbero oggi ragione a Bruno sull’infinito e sulla sua inafferrabilità come concetto parametrabile alle categorie della ragione umana.
«E non sono altri motori estrinseci, che col movere fantastiche sfere vengono a trasportar questi corpi come inchiodati in quelle; il che se fusse vero, il moto sarebbe violento fuor de la natura del mobile, il motore più imperfetto, il moto ed il motore solleciti e laboriosi; e altri molti inconvenienti s’aggiongerebbeno. Consideresi dunque, che, come il maschio se muove alla femina e la femina al maschio, ogni erba e animale, qual più e qual meno espressamente, si move al suo principio vitale, come al sole e agli astri».
Che in una parafrasi dell’oggi significa: non ci sono dei motori esterni che, muovendo sfere immaginarie, fissano in esse i corpi celesti. In pratica, scrive Bruno, la Terra e gli altri pianeti si muovono attorno al Sole per via di un loro moto proprio, per un impulso che possiedono e non spinti da altro. In questa armonia, la matafora dell’attrazzione fisica e sentimentale tra uomo e donna è calzante. Come la calamita fa muovare il ferro, il filo d’erba l’ambra, ogni cosa cerca ciò che le è simile e congeniale.
L’esistente è quindi dotato di una sua vitalità, anche se la maggior parte della materia è inanimata. Le leggi cui obbediscono i corpi celesti sono intrinseche all’Universo. Sono, nella concezione di quel “vero cattolicesimo” che il Nolano sente di avere in sé, la manifestazione più prossima a noi di Dio.
E non c’è nulla di proibito in tutto questo. Libertà di pensiero e libertà di fede coesistono in una concezione antidogmatica di questa stessa, in cui l’uomo si riappropria della verità nella misura in cui è in grado di essere sufficientemente critico per potersi confrontare con le altre esperienze di pensiero e di vita. Ciò che Bruno evidenzia sempre più, con il trascorrere della sua esistenza, è la necessità della separazione col potere.
Non appartenere se non a sé stessi e all’idea di felicità che si fonda sull’amore per il prossimo, senza dovere obbedienza a nessun altro essere umano, evitando così di essere corrottti dalla protervia di una perseveranza che diventa cieco orgoglio di una ostinazione in cui il potere sguazza e si perpetua.
Nel cogliere il valore delle intuizioni dei filosofi greci sulla trasformazione eterna della materia, Bruno rivede il significato della vita senza per questo operare una scissione con l’ipotesi-Dio. Al dogmatico cattolico non è permesso mettere in discussione nulla se non mediante il consenso della Chiesa. Il libero pensatore, che guarda verso le stelle tenendo tra le sue braccia la pianta crescente del dubbio e, quindi, dell’amore per la conoscenza che non ha sosta e che subisce esso stesso continue trasformazioni, è invece colui che smette di avere delle certezze.
Il filosofo moderno, naturalista e cosmoteista, parte dai dati di fatto e nella straordinaria complessità cui giunge la mutazione della materia, se è credente come Bruno e Campanella, vede la potenza di Dio. La perfezione nell’imperfezione di un mondo in cui le maggiori contraddizioni tra essenza e etica della stessa sono tutte proprie dell’umanità.
MARCO SFERINI
18 febbraio 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria; in primo piano, a sinistra un ritratto di Tommaso Campanella, a destra particolare del monumento dedicato a Giordano Bruno (opera dello scultore Ettore Ferrari), eretta in Campo de’ Fiori a Roma nel 1889, nello stesso luogo dove fu eretto il rogo in cui il filosofo morì il 17 febbraio 1600