Emerge ormai il disvelamento di un’attitudine, già radicata nelle forze politiche e nei poteri pubblici italiani, a intervenire sulle cruciali materie economiche e sociali non con slancio progettuale – per colmare i drammatici vuoti accumulati nell’apparato produttivo e nella struttura sociale – ma mediante la comoda e facile via fiscale, soggetta a rischi di distorsione redistributiva e non in grado di agire sulle strutture.
Lo testimoniano gli specifici elementi di debolezza della proposta di abbassamento dell’Iva: l’elevatissimo costo in termini di minori entrate e di maggior deficit, l’incertezza della traslazione sui prezzi del taglio dell’Iva, il modesto effetto da “moltiplicatore” sulla domanda e l’elevata probabilità che i consumi rimangano comunque bassi, la difficoltà successiva di riportare l’Iva al suo valore corrente.
Della mancanza di uno slancio progettuale sono testimonianza il Rapporto della Commissione Colao zeppo di agevolazioni fiscali, crediti d’imposta, rinvii di tassazione, contrazioni di aliquote, esenzioni, le quali avrebbero tutte il prevalente effetto di contribuire al massacro della coerenza del sistema tributario nazionale, già ridotto a un colabrodo, ragione non ultima della nostra elevatissima evasione fiscale.
Ma non scherzano nemmeno le proposte di politica industriale del Pd, infarcite di incentivi alla transizione e a fondo perduto, agevolazioni fiscali di vario tipo, crediti d’imposta, stimolazione del risparmio, sgravi per la nuova finanza, sostegni monetari, prestiti, premi ai lavoratori, in una parola trasferimenti monetari, diretti e indiretti, i quali, necessarissimi nell’emergenza e quando le difficoltà non siano altrimenti aggredibili come nel caso della povertà, hanno comunque un valore “compensatorio” non “promozionale” e non sono in grado di agire strutturalmente cambiando il modello di sviluppo.
Qui la pulsione anti-tasse ereditata dal neoliberismo (sostenitore dell’”affamamento” della bestia governativa, starving the beast, mediante tagli delle tasse, in realtà a enorme vantaggio dei ricchi) si salda con una crescente riluttanza dello Stato italiano – dopo il mancato decollo dei gloriosi tentativi di programmazione del primo centrosinistra e la fine dell’epoca d’oro della Cassa del Mezzogiorno e delle Partecipazioni Statali – a ideare e a mettere in pratica, invece che solo politiche indirette per prevalente via monetaria e fiscale fatalmente destinate a confermare gli equilibri dati, progetti di alto profilo mediante politiche dirette, volte a incidere profondamente sullo status quo e a modificare il modello di sviluppo in direzioni programmate e intenzionalmente organizzate.
Eppure, ora che dobbiamo risollevarci dalle tragiche conseguenze della pandemia da coronavirus, il momento sarebbe estremamente propizio per un rovesciamento di paradigma, riscoprendo parole-chiave come “programmazione”, “pianificazione”, “capacità progettuale”.
Non a caso nella straordinaria svolta compiuta dall’Europa con il Next Generation Plan il baricentro è sugli investimenti pubblici, per la sanità, la scuola, l’economia verde.
Questa è oggi la strada da aprire con assoluta urgenza, senza esitare a mettere in campo ipotesi di autentica nuova “democrazia economica”, se non vogliamo che, una volta che l’epidemia sarà stata domata, tutto riparta business as usual, con l’unica variante di una maggiore diseguaglianza.
L’inventiva, la creatività, la creazione dal nulla che sono necessarie dovrebbero indurci a trarre ispirazione in modo non retorico da ciò che fece Roosevelt con il New Deal, quando inventò molte istituzioni, tra cui i Job Corps, le Brigate del lavoro.
Non si deve dimenticare che tra le caratteristiche fondamentali del New Deal ci sono state la mobilitazione anche morale di straordinarie risorse umane e intellettuali – dall’associazionismo al volontariato, ai sindacati, alla scuola e alle Università, ai centri culturali e di pensiero, tutti furono chiamati a contribuire all’ideazione dei progetti di cui c’era bisogno – e la cifra “sperimentalista” (per la quale Roosevelt traeva ispirazione dai filosofi pragmatisti americani e da Dewey) e pertanto la sollecitazione della creatività e dell’inventiva.
Se l’insegnamento più importante per l’oggi è che il lavoro non può essere una misura che si aggiunge alle altre ma deve diventare il baricentro di un’intera politica economica alternativa, occorre assumere la questione della disoccupazione non come un “fallimento del mercato” tra gli altri, ma come la contraddizione fondamentale ricorrente del capitalismo, accentuata da eventi come la pandemia.
Questa è, dunque, la vera sfida odierna: puntare su una radicalità inusitata di progettazione teorica e di critica ideologica, opponendo all’operazione deresponsabilizzante che fanno i sostenitori della generalizzazione dei trasferimenti monetari (quali sono anche gli incentivi fiscali) un’iniziativa di forte profilo ideale sul nuovo modello di sviluppo e sulla “democrazia economica”, la quale, assunta in termini alti, può dar vita a una prospettiva di neo-umanesimo.
LAURA PENNACCHI
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