È fortunato Bruno Vespa per essere stato solo deferito e non, per esempio, sospeso o cacciato dall’Ordine dei giornalisti a proposito della intervista del 17 settembre a Porta a Porta su Raiuno con Lucia Panigalli, sopravvissuta a un tentativo di uccisione da parte del proprio ex.
Seppure quanto accaduto sia un segnale importante che segue la direzione di chi ha sollevato l’intollerabilità della conduzione, con un lavoro di sponda che prosegue da anni – da Non Una Di Meno ai centri antiviolenza, alle Cpo di Fnsi, Stampa Romana, Usigrai e altre associazioni e movimenti. Vespa è comunque baciato dalla buona sorte, inversamente proporzionale alla grossolanità mostrata mentre si rivolgeva a chi nel 2010 è stata accoltellata per strada e presa a calci in testa da un uomo che non accettava di essere abbandonato. Se l’Odg avesse voluto avrebbe potuto sanzionare il giornalista più pesantemente, di questo ne sarà pure cosciente. Come, nel merito, potrebbe pronunciarsi anche la Rai.
La questione consumatasi l’altra sera in tv giace nel torbido di dettagli irrilevanti che tuttavia, nella trasmissione, vengono moltiplicati per essere commestibili a tutti i palati. Questa volta non si tratta però di plastici da Cogne, né di simulazioni da Avetrana, nemmeno di campanelli improvvisi da sotto la scrivania o aperitivi con segretari e ministri prima di entrare in studio. Nessuna perplessità estetica quanto piuttosto etica oltre che politica nello sciorinare l’equivalente e inconfondibile prossemica, tra il serio e il faceto, capace di rimbalzare dalle sagre paesane alle stragi di stato, con una leggiadria da pattinatore ineffabile.
Ma con Lucia Panigalli fa un passo ulteriore: a una vittima della violenza maschile, scortata per poter uscire di casa, il cui aggressore pare che dal carcere abbia cercato di corrompere un sicario bulgaro per farla fuori, Vespa dice che se Mauro l’avesse voluta uccidere lo avrebbe fatto, del resto tante donne muoiono – prosegue -, e narra di un «amore folle» ché «18 mesi per un flirt sembrano un po’ lunghetti, eh».
Fino a quando si debba giustificare la sopravvivenza, esito della propria esperienza, venendo ridotte ulteriormente a vittime al cospetto dell’immaginario pubblico, la lotta deve farsi ancora più puntuale. Fino a quando si rappresenterà la violenza maschile un fatto episodico, rubricato insieme a umoralità transitorie, interpretabile ed emendabile da esterni, si dovrà essere pungolatrici instancabili. Non è mai un fatto privato, chi ha discusso e dissentito sulla conduzione della intervista con Lucia Panigalli lo ha fatto per lei ma anzitutto per se stessa, per l’amore e la gratitudine che si devono verso le proprie simili che con forza si liberano dalla violenza.
E anche per chi di femminicidio è morta, in mezzo a dubbie restituzioni tra «giganti buoni» e «tornitori mulinanti», come nel caso di Elisa Pomarelli.
Dopo anni di lavoro sul linguaggio, dopo che il femminismo svolge da decenni un ruolo cruciale anche sulla presa di parola pubblica relativa alla violenza maschile contro le donne, sappiamo che non è un ardire questo di restare in vita; non si è reduci di nessuna guerra, né c’è qualche nemico immaginario e astratto con cui spartire la colpa.
Se non si fa letteratura sul corpo delle donne ammazzate, tanto più non si dovrebbe commettere l’errore della sfrontatezza inutile di giustapporre interpretazioni sulla pelle altrui. Non è più consentito farlo, non solo perché non è un servizio pubblico, bensì perché le donne sono uscite dallo sgabuzzino simbolico della storia da tanto di quel tempo che tentare di rificcarcele, con gomitatine allusive, è quantomeno bizzarro oltre che irricevibile.
La misura è colma, tutto continuerà a venire rispedito al mittente, ignorante, che si dovrebbe imparare a non assumere come proprio interlocutore.
ALESSANDRA PIGLIARU
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