La critica che è stata rivolta ad una eventuale presenza politica “semplificatoria” della presenza dei comunisti in termini di sola rappresentanza dell’immediatezza dei bisogni va affrontata tentando di scavare a fondo nella costruzione di un retroterra teorico e della relativa conseguente proposta politica in forma e sostanza adeguate alla realtà delle contraddizioni effettivamente operanti nella realtà.
Tralascio per evidenti motivi la molteplicità di ragioni che rendono del tutto improponibile una ipotesi identitaria di tipo “riformista classico”: beninteso senza contrapporvi una idea “rivoluzionaria” altrettanto radicata esclusivamente nella tradizione storica della sinistra comunista.
Pare ormai accantonata, infatti, la possibilità di espressione di un concetto di egemonia dell’agire politico e pare essere stato abbandonato anche quello del ruolo della struttura politica quale riferimento anche sociale, di vera e propria “espressione di comunità”: sembra proprio che ci si arresi alla reciproca autonomia, quella del “politico” e quella del “sociale”.
Non a caso questa discussione emerge in un frangente di tipo elettorale e ancora una volta ciò accade all’interno di un dibattito sulla “forma” della presenza istituzionale e del rapporto con la formalità del “governo” e delle alleanze.
Senza considerare ancora una volta tutto quello che è accaduto di degenerativo sul terreno dell’autonomia del politico, a partire dall’esaltazione inconsulta del personalismo che, a sinistra, ha compiuto disastri facendo smarrire il senso dell’identità collettiva e della capacità di rappresentanza.
L’altro punto riguarda la necessità, a mio giudizio almeno, rispetto al “caso italiano” che esiste, sia pure in forma direttamente rovesciata rispetto a quello che era stato fino agli anni’80: siamo passati, insomma, da avanguardia a retroguardia, tanto per semplificare di far ripartire un processo aggregativo nuovo e diverso basato su due punti fondamentali: quello dell’opposizione “sistemica” e quella di una forma della struttura politica.
Provo a procedere con ordine.
La proposta che si sta tentando da tempo di avanzare per la formazione di una nuova soggettività politica della sinistra italiana ha necessità di essere motivata andando “oltre” alle ragioni del contingente.
Occorre, infatti, andare alle radici del meccanismo dell’aggregazione politica, recuperandone insieme significati ed effetti aggiornandoli ai cambiamenti culturali, sociali, tecnologici, di costume verificatisi nel tempo.
Gli scienziati politici, al proposito, hanno sempre usato due prospettive definite l’una come primordiale e l’altra come strumentale.
Si tratta quindi di tornare ad analizzare com’è avvenuta, e come può avvenire nel futuro, l’interazione tra le forze sociali (primordiali) e le forze istituzionali (strumentali) per determinare le possibili identità delle formazioni politiche.
Prestando attenzione a un punto fondamentale: la funzione principale del partito politico rimane quella di rappresentare, formulare e promuovere gli interessi e le cause dei suoi appartenenti.
Con buona pace delle proclamazioni relative al “superamento dei concetti di destra e di sinistra” questi interessi e questa cause, al di là della retorica, sono sempre condivisi, per loro stessa natura, solo da una parte della popolazione complessiva.
Per questo motivo la classificazione “classica” delle diversità tra i partiti politici si è sempre realizzata usando quella che è stata definita “teoria delle fratture”, via via attualizzata nel tempo con il mutare delle condizioni culturali, sociali, tecnologiche.
Quella “teoria delle fratture” che si chiede oggi di aggiornare alla luce di quanto avvenuto negli ultimi tempi.
Il più importante aggiornamento nella “teoria delle fratture” è avvenuto nel 1967 per opera di Lipset e Rokkan, attraverso la divisione tra “fratture post-industriali” e la “frattura di classe” che aveva assunto assoluta rilevanza durante la rivoluzione industriale alla fine del XIX secolo.
Con la “frattura di classe” gli attori sociali si contrappongono in base a interessi economici divergenti provocando un conflitto di tipo “verticale” tra attori che si guadagnano da vivere con il proprio lavoro e attori che si guadagnano da vivere attraverso lo sfruttamento della proprietà o del capitale.
La definizione più netta e precisa della “frattura di classe” è sicuramente quella di Karl Marx contenuta nel testo “La povertà della filosofia” del 1847 “gli individui fanno parte di una classe in sé in virtù della relazione obiettiva che intrattengono con i mezzi di produzione”.
Si può dire che per gran parte del XX secolo la “frattura di classe” abbia rappresentato un punto di riferimento stabile nelle dinamiche dei diversi sistemi politici, anche oltre le differenziazioni teoriche e ideologiche e del formarsi di “ceti politici” di tipo professionale che, alla fine, hanno potuto perseguire obiettivi distinti da quelli della classe che intendevano rappresentare, come ben descritto da Michels nella sua elaborazione circa “la legge ferrea dell’oligarchia” e nelle analisi sulla politica come professione elaborate da Max Weber.
Era così emersa un’ipotesi di “congelamento” delle fratture esistenti anche per spiegare perché i partiti politici che dominavano le elezioni negli anni’60 del XX secolo erano gli stessi partiti che avevano dominato le elezioni decenni prima, negli anni’20 o ’30 ed egualmente per spiegare l’accumulo di consenso realizzato, comunque, dai partiti al potere nei regimi dell’Est europeo a cosiddetta “rivoluzione avvenuta” o di “socialismo reale”.
L’ipotesi del “congelamento” viene messa in discussione a partire dalla fine degli anni’80 con l’emergere di nuovi fenomeni sociali quali quelli dell’ambientalismo, del femminismo, dell’immigrazione al punto che Inglehart nel 1997 afferma come si sia di fronte a un mutamento di valori all’interno delle società industriali avanzate, passando da valori “materialisti” a valori “post materialisti”.
Da allora si è assistito ad un declino nella rilevanza delle fratture più tradizionali e all’emergere appunto di una non meglio definita frattura “post-materialista”, in quadro di generale richiesta di espansione della libertà umana.
A questo punto è facile individuare, sotto questo profilo, le ragioni teoriche di ciò che è accaduto nell’ultimo decennio del secolo scorso rispetto allo sconvolgimento di sistemi politici consolidati, alla caduta dei regimi dell’Est europeo, al mutamento complessivo di paradigma nella natura dei partiti politici con il rovesciarsi del rapporto tra gli interessi dei ceti politici professionalizzati (governabilità, personalizzazione) e quelli dei rappresentati in nome delle “fratture sociali” persistenti.
Nel frattempo si è realizzato un altro rovesciamento “storico” sul piano della comunicazione di massa e del rapporto tra questo e il consumo individuale: una novità fondamentale che ha dato vita al fenomeno della cosiddetta “globalizzazione”, esplosa in particolare nella prima parte di questo decennio del X XI secolo.
Su questa base si sono verificati due fenomeni di portata assolutamente epocale: quello del passaggio da un’idea del collettivo sociale all’individualismo di massa (sulla base del quale la democrazia ha assunto le vesti della cosiddetta “democrazia del pubblico”) e dello smarrimento da parte dei partiti politici dell’idea della rappresentanza.
Due fenomeni che hanno determinato il formarsi di nuove élite e di nuovi intrecci tra economia e politica al fine di determinare livelli diversi da quelli della governabilità democratica novecentesca.
Si stanno così affermando nuovi modelli di governabilità autoritaria in economia come in politica, al fine di favorire l’intensificazione dei complessi meccanismi di sfruttamento in atto che hanno generato una vera e propria egemonia nella gestione del ciclo capitalistico, provocando fenomeni di vera e propria regressione sul piano storico.
All’interno di questo quadro, sommariamente descritto, l’opposizione è stata affidata, in generale e a prescindere dalla diversa qualità e composizione dei sistemi politici, alla protesta movimentista, all’idea che le “moltitudini” potessero provocare con i loro sommovimenti un mutamento di equilibri, spostando, sul piano teorico, la realtà della “frattura di classe” verso una ricerca di richiesta di restituzione di non meglio precisati “beni comuni”, intesi soprattutto come valori ambientali e di disponibilità essenziali per la vita umana.
Mentre questo quadro sta mutando e la globalizzazione sembra essersi arrestata tornando d’imperio sulla scena del mondo il primato della geopolitica e la contrapposizione a livello planetario non si è riusciti ad invertire la tendenza proprio nel definire un aggiornamento teorico relativo alla realtà delle “fratture” esistenti, sulla base del quale riaggregare primordialmente interessi specifici.
Sembrano tre le grandi questioni sul tappeto: 1) quello del rapporto tra consumo del pianeta in termini complessivi di suolo e di risorse e la prospettiva di vivibilità del genere umano; 2) quella della capacità cognitiva, in termini globali di formazione, informazione, capacità di trasmissione di notizie e cultura (e quindi di educazione globale) come sta accadendo sia nell’utilizzo delle nuove tecnologie, sia nel ritorno a pericolosissimi fondamentalismi posti non tanto e non solo sul piano bellico ma – addirittura – su quello “storico”, capaci ciò di informare un’intera epoca futura ottundendo la complessità delle contraddizioni; 3) quella della contraddizione di genere nel senso della mancata risoluzione del dato di modernità caratterizzata dalla supremazia dell’ordine da produrre unico, certo, patriarcale, autoritario. I movimenti femministi sono i primi a denunciare la falsità di questo ordine precostituito. Il potere patriarcale ha fondato la pretesa di universalità sull’esclusione di tutti quei soggetti “altri” che non corrispondono all’ideale maschio – etero – borghese – bianco: ma questo tema è stato sollevato ma ancora non solo non è stato posto in via di risoluzione ma neppure collocato nell’ordine dei cleavages da affrontare.
Sono questi i punti di riflessione sui quali soffermarsi: nel momento in cui appare necessario muoversi sul terreno di una nuova dimensione collettiva dell’agire politico da strutturare organizzativamente qui ed ora dove ci troviamo concretamente, come riuscire a far sì che il contesto di interessi che legano la classe che s’intende rappresentare a questo tipo di fenomeni appena descritti assuma una veste politica definita, sia sul piano teorico di riferimento sia rispetto ad un progetto di radicale trasformazione sociale e politica.
A questo punto appare indispensabile lavorare su di un aggiornamento della “teoria delle fratture” del livello di quello che appunto fu elaborato al momento della comparsa dell’insostituibile e comunque fondamentale “frattura di classe”.
“Frattura di classe” che, oggi, nell’esplicitarsi della ferocia della gestione del ciclo capitalistico, trova un suo rafforzamento e una sua capacità di inglobare l’insieme delle discriminazioni sociali (pensiamo al tema della differenza di genere) tale da renderla agente dell’insieme delle contraddizioni che “spaccano” la società moderna.
Non possiamo però arrenderci a questa ineluttabilità: abbiamo bisogno di fare opposizione subito ma prefigurando la prospettiva di una società alternativa, di una trasformazione radicale dello stato di cose presenti.
Per questo serve il nuovo soggetto: nuovo soggetto che non accetta la “filosofia della crisi” e il minoritarismo ma esprime, da subito, un nesso inscindibile tra autonomia ed egemonia.
Questo lavoro, come posto in premessa, è stato compilato soltanto con l’intento di fornire un contributo all’ordine dei lavori individuando la necessità di procedere nella costruzione di una soggettività politica.
E’ evidente che la prossima fase, comprendente il passaggio elettorale, non debba essere interpretata semplicisticamente in termini di utilità immediata considerata dal punto di vista dell’apparire in una contesa dominata dall’individualismo competitivo e al riguardo della quale il dato più importante di presenza deve essere destinato al recupero del concetto di rappresentanza.
Sono queste le ragioni di fondo per le quali, anche in una vicenda “de minimi” come quella elettorale italiana è il caso di presentare un progetto di “opposizione sistemica” collegata strettamente tra presenza istituzionale e insorgenze sociali, sulla base della quale sviluppare infine una possibilità di nuova soggettività.
FRANCO ASTENGO
3 gennaio 2018
foto tratta da Pixabay