“Il Manifesto” di ieri, 12 Gennaio, pubblica un inserto dedicato a materiali e interviste destinate all’elaborazione della “Conferenza di Roma sul Comunismo” che is svolgerà tra il 18 e il 22 Gennaio prossimi.
Da una prima lettura di alcuni di questi interventi laddove si pensa a un’eredità marxiana che risiederebbe nel poter immaginare una critica” non nostalgica dell’esistente” e “innovazioni teoriche” o la costruzione di “istituzioni che prefigurino già la nuova società” (rispettivamente Balibar, Mezzadra e Negri) sorge davvero l’interrogativo riguardante il collocarsi tra aggiornamento e revisionismo.
Aggiornamento nel senso di apertura di una ricerca riguardante essenzialmente la complessità delle contraddizioni in atto nell’oggi; revisionismo, nel senso di un allontanamento “recisorio” rispetto all’idea di fondo della rappresentanza egualitaria delle condizioni materiali di vita della classe sfruttata.
Nel cercare di fornire un contributo di riflessione rispetto all’interrogativo appena sopraesposto che credo dovrebbe stare al centro della discussione del convegno mi permetto di porre al centro la questione del “soggetto politico”: questione che appare ormai abbandonata all’ineluttabilità dello sviluppo storico della sconfitta.
Eppure l’ipotesi del soggetto posto in relazione ad un’idea di riforma della democrazia rappresentativa dovrebbe ancora collocarsi al centro di una prospettiva di rilancio della presenza politica dei comunisti.
Ci troviamo ormai di fronte ad un giudizio generalizzato di stampo olistico che, cancellando ogni contrapposizione di classe e ogni conflitto interno alla società, fa della “società civile” un corpo omogeneo, spesso caratterizzato come un soggetto agente.
In queste condizioni secondo alcuni Il conflitto viene traslato verso un altro corpo sociale omogeneo, esterno alla società civile, la “casta” ovvero il ceto politico, il quale persegue il proprio vantaggio a discapito dell’interesse generale.
Ciò avviene, possiamo sottolineare, perché ci troviamo di fronte non all’espressione di soggetti portatori del “collettivo” ma della somma delle individualità.
Questo elemento porta il “ceto politico” a rimanere comunque subalterno come nel caso, sempre traslando nell’attualità, della sottomissione del ceto politico ai mercati finanziari: il neo liberismo come culto pagano del “dio mercato”.
Questa metafora rappresenta in ultime analisi quello che Marx chiamava “feticismo”: ciò che è nei fatti un insieme determinato di rapporti sociali, dunque dipendente dall’azione degli individui, viene vissuto come una “cosa” indipendente dall’azione stessa e che anzi la domina.
Ma con la critica all’economia politica Marx non si è limitato a denunciare questo feticismo come “falsa coscienza”.
Al contrario, il suo intento era precisamente quello di identificare la radice reale, assolutamente concreta di tale feticismo nelle caratteristiche strutturali di quella specifica forma di rapporti sociali.
Da questo punto di vista assistiamo invece oggi a una sorta di abdicazione: da parte delle teorie politiche critiche della società, mentre si moltiplicano teorie (e movimenti sociali) che riducono il problema a una pura e semplice mistificazione.
Non basta riversare l’individualismo istituzionale in una “posizione collettiva di scopo”, da confrontarsi con la teoria delle classi e della lotta di classe.
Neppure può essere considerato sufficiente il confronto individualismo/collettivo da eseguirsi secondo i canoni classici della concezione del collettivismo: socializzazione dei mezzi di produzione e della distribuzione, considerato come il mezzo attraverso il quale si realizza il passaggio dalla proprietà privata a un tipo di proprietà collettiva e di conseguenza si annulla l’individualismo istituzionale, poiché rappresenterebbe, di fatto, il passaggio dal particolare all’universale.
E’ necessario, invece, uno strumento di mediazione e di sintesi che altro non può essere che la “politica” nelle sue forme più alte.
Lo scopo della mediazione e della sintesi esercitate con l’azione politica può, infatti, restituire spirito critico e consentire all’individuo di scorgere, ben al di là della moltitudine, la visione generale dei grandi problemi della storia e quella particolare delle specifiche settorialità nelle quali è suddivisa la vita quotidiana, nei suoi scopi di produzione e di soddisfazione dei bisogni.
L’esercizio della “politica” nelle sue forme più alte non può però avvenire in assenza di collaudati corpi intermedi.
Qui nasce ancora una volta, riportando il tema all’attualità più stretta come pure merita, il tema del “partito” da non considerare come mero strumento dell’esercizio del potere e del soggetto che fornisce il contributo decisivo a quell’annullamento delle espressioni di contraddizione sociale e politica cui pure si è già fatto cenno.
E’ la questione, limitando in estrema sintesi il discorso, della sinistra italiana che si vorrebbe d’alternativa: senza il recupero nella funzione del “partito” ogni espressione di critica sociale e di proposta di trasformazione cadrà nel vuoto.
La crisi di oggi propone, proprio sul terreno del passaggio dal particolare all’universale, una difficoltà di indicazione che potrebbe essere superata tornando a riflettere sul partito come “intellettuale collettivo”, promotore di una “rivoluzione morale”.
Un partito di ispirazione gramsciana.
Gramsci sviluppò la concezione del partito – appunto – come “intellettuale collettivo”.
Nella sua analisi l’intervento diretto di grandi masse nella vita delle nazioni moderne, la costituzione di una vasta rete di organi di informazione e di mezzi di comunicazione, rendono indispensabile – al contrario di come intende oggi la moda della personalizzazione della politica – l’organizzazione e la centralizzazione delle forze e delle aspirazioni, della “volontà collettiva”.
Gramsci intendeva che questa funzione, di “volontà collettiva”, fosse svolta da un organismo che fosse elemento della società complessa, nella quale proprio la “volontà collettiva” iniziasse a concretarsi, affermandosi anche parzialmente nell’azione.
Gramsci pensava a una “compartecipazione attiva e consapevole” allo scopo di formare un legame stretto tra grande massa, partito, gruppo dirigente e tutto il complesso, ben articolato, avrebbe potuto muoversi come un “uomo collettivo”.
Valse la pena provarci allora, è il caso di provarci anche adesso: un tema che nel corso della conferenza non potrà essere ignorato.
Il senso della storia, proprio nella fase di arresto del governo del ciclo così come è avvenuto nel corso degli ultimi anni con la difficoltà di quella che era stata definita “globalizzazione” (con annessi e connessi rispetto al ruolo dello Stato), rende quanto mai urgente per i comunisti. il tema dell’organizzazione e della rappresentanza politica.
FRANCO ASTENGO
redazionale
13 gennaio 2017
foto tratta da Wikimedia Commons