Vicini e lontani, simili e dissimili
Avviciniamo le similitudini senza allontanare le differenze. Solo così è possibile dare una qualche forma interpretativa a quanto sta accadendo dalla Turchia all’Italia e dalla nostra penisola alla Spagna.
Le forze politiche di centrosinistra, liberalsocialiste e socialiste nel senso più proprio del termine hanno registrato delle sconfitte. E questo è un dato inoppugnabile. Il grado di queste débâcle va da quello meno imponente subito da Kemal Kılıçdaroğlu, soprattutto nel secondo turno delle presidenziali turche, a quelli più evidenti e pesanti delle amministrative italiane e iberiche.
Colpisce in particolare in Spagna l’avanzata della destra neofranchista di Vox, il partito che in larga parte rivendica una vicinanza non solamente storica con il regime del generalissimo, e che si appresta a governare regioni che, proprio come Ancona, Massa, Pisa o altre città italiane cadute nella rete delle forze di governo meloniane, erano feudi del progressismo o, quanto meno, apertamente ostili al popolarismo e, in particolare, ad ogni tentativo revanchista della dittatura.
In Turchia, Recep Tayyip Erdoğan rimarrà alla presidenza della repubblica fino al 2028 con un programma politico neo-ottomano, repressivo all’interno ed espansionista all’esterno. Un regime ispirato da una concezione autocratica, intollerante verso le critiche, avulso a qualunque condivisione delle normali libertà costituzionali: di parola, di stampa, di espressione e, quindi, di agibilità democratica, di diritto all’opposizione.
Ciò che avvicina Ankara, Roma e Madrid oggi è una nemmeno tanto sottile linea nera, una netta e chiara propensione popolare a dare ai problemi sociali, politici interni ed esteri, alle questioni dirimenti la vita tanto singola quanto collettiva una risposta da e di destra. La più clamorosa contraddizione che si può evidenziare a questo riguardo è il contrasto tra le politiche sociali messe in pratica dal governo Sánchez e il risultato del voto amministrativo spagnolo.
Come è possibile che, nonostante un governo di sinistra faccia riforme e investa i soldi del PNRR nella direzione migliore, quella sociale e al contempo di tutela della sostenibilità e della transizione ecologica, le forze politiche dello stesso esecutivo vengano bastonate e mandate a casa dal voto nella stragrande maggioranza delle comunità, comprese quelle autonome dove un tempo era l’indipendentismo o l’autonomismo a giganteggiare, anche rispetto al Partito popolare oggi tronfio del successo?
Neofranchisti e sinistra litigiosa
Il caso spagnolo è, oggettivamente, quello che più di tutti oggi dà seriamente da pensare. Perché, se realmente esigibile come dimostrazione di un fatto, ossia della presunta correlazione tra il dire il fare, della coerenza messa in pratica all’atto di governare, mantenendo in quattro anni buona parte delle promesse e dei programmi espressi in campagna elettorale, come è possibile che la sinistra non raccolga i risultati di una discretamente buona politica vicina alle classi più deboli e disagiate?
Perché si interrompe un filo logico, una connessione quasi meccanicistica tra ipotesi e tesi, tra pensato e fatto, oltre tutto in un contesto di unità e dialogo delle forze moderate progressiste, come il PSOE, e quelle più radicali e di alternativa come Unidas Podemos, Izquierda Unida, la Sumar di Yolanda Díaz, le esperienze di comune condivisione del potere di Ada Colau? Una delle risposte, ma solamente una, quindi molto parziale, è la ripresa di una rissosità interna alla proprio alla sinistra spagnola.
I contrasti sono stati, oltre ogni ragionevole dubbio, percepiti proprio dall’elettorato progressista come un inciampo tanto della coalizione di governo quanto delle altre forze a questa esterne ma, comunque, sempre correlate ad essa in una logica di contrapposizione con le destre.
Ma è sufficiente questo aspetto per far franare un rapporto di interazione tra la sinistra e il suo popolo?
La risposta più allarmante, sincera, fondata su una mera osservazione dei dati numerici e di fatto, non può che essere: sì, lo è. In realtà, i condizionamenti che allontanano dalla partecipazione popolare alle elezioni, che frappongono una cesura tra progressismo e progressisti sono di diversa natura e non riguardano solamente i rapporti tra partiti, le sottigliezze e le marcate differenze dentro le complessità delle coalizioni.
L’appoggio alla risposta imperialista della NATO nei confronti dell’invasione russa dell’Ucraina è, molto probabilmente, un altro fattore di rischio per la tenuta della maggioranza spagnola di governo al momento delle tornate elettorali. Un altro sintomo di disagio potrebbe essere il trattamento riservato alle popolazioni migranti, oppure all’annosa questione del popolo Saharawi.
Sono tutti lati di un perimetro sempre più stringente per una sinistra che, va detto senza cincischiare troppo, si è comportata bene al governo della Spagna.
Lo ha fatto intervenendo sulla precarietà, sui salari, sui contratti, aprendo una stagione espansiva dei diritti sociali. Lo ha fatto anche rispettando le comunità locali, dando fiato ad una ripresa del confronto tra Stato centrale e autonomie. Lo ha fatto proteggendo i diritti civili e quelli delle donne, diventando, unica in Europa al momento, la punta di diamante di una lotta femminista che non è solo delle femministe, ma che pretende – e giustamente – un uguale riconoscimento come lotta per l’emancipazione generale.
Il livello egemonico
Diverso il discorso invece per la Turchia e per l’Italia: la prima, governata da un vero e proprio regime oppressivo (cui lo stesso Mario Draghi affibbiò il marchio di dittatura), ha avuto alle elezioni una opzione di centrosinistra kemalista, nazionalista, poco incline alla difesa delle autonomie e della grande minoranza curda (uno dei principali temi di campagna elettorale e uno dei più divisivi), che puntava tutto sullo scontento popolare per un sultanato moderno di cui contestava la politica interna, senza differenziarsi molto su quella estera.
La seconda, il nostro Paese, ha confermato nelle urne delle amministrative un consenso ridotto ma pur sempre imprescindibile per conquistare i governi locali e permettere a Meloni, Salvini e Berlusconi di affermare che il “vento di destra” richiamato da Elly Schlein non si è affatto affievolito. Soffia, spira impetuoso e pare essere l’unica risposta possibile in chiave quanto meno gestionale tanto del potere quanto delle problematiche sociali e civili, ambientali e culturali dell’oggi.
La destra, dunque, ha raggiunto un livello egemonico così alto?
E’ capace di esprimere una alternativa culturale rispetto a quella sinistra che un tempo, oramai più di trenta anni fa, era dominante nel panorama letterario, cinematografico, artistico e ricreativo? E questo può essere un tema comune fra Spagna, Turchia e Italia? I rapporti di forza economici hanno sempre puntato ad una mediazione tra interessi propri e cultura condivisa. Il punto di incontro (e di scontro) era il liberalismo sociale (dai tratti gobettiani) contenuto nella Costituzione, frutto di un compromesso di alto livello.
La destra di oggi, e questo è abbastanza evidente in tutti e tre i paesi presi qui in esame, è invece incapace, rispetto al centro di fine Novecento, di raggiungere un livello di dialogo e di interazione con le forze politiche e sociali che le sono diametralmente opposte. E questo, anzitutto, per l’idiosincrasia che le proviene dalla sua storia anche recente con una serie di parametri costituzionali che sono a fondamento della Repubblica: l’antifascismo, la solidarietà sociale e civile, un umanesimo egualitario, la giustizia sociale.
Tanto Fratelli d’Italia quanto Vox, e così pure il partito di Erdoğan, si rifanno a tradizionalismi stantii, eppure così attraenti anche per una parte dell’elettorato progressista (certamente per quello di centro): dal ventennio fascista al franchismo, fino ad un ritorno della Turchia al ruolo egemone che si era costruito lo Stato eterno, la Sublime Porta fino almeno alla seconda metà del ‘600, non oltre gli inizi del ‘700.
Perché, nonostante il centrosinistra si presenti, almeno in Turchia, unito e, addirittura, in Spagna si possa parlare di “sinistra al governo” piuttosto che di centrosinistra, non si ha un appoggio pieno da parte della popolazione ai diritti che le spettano, ad una nuova stagione egualitaria in replica ai tanti egoismi che il liberismo impone? E’ sufficiente governare per spostare l’ago della bilancia da destra a sinistra e far prevalere politiche appunto sociali, uniformate ad un principio di condivisione, di comunanza, di un “benecomunismo” moderno e attualissimo?
Il contesto liberista
In tutta oggettività non è sufficiente né governare, né stare all’opposizione sempre e comunque. Sappiamo bene che chi deve gestire la cosa pubblica parte svantaggiato alle elezioni successive, perché le tante contraddizioni che incontra proprio nell’amministrazione dello Stato lo portano a preferire soluzioni di compromesso che finiscono per scontentare inevitabilmente una parte del proprio elettorato.
Ma, se si mette in conto di perdere per strada una percentuale di consensi, non si può però prefigurare uno scenario nettamente opposto, soprattutto se – come si diceva prima – programmi elettorali e azione di governo hanno spesso e volentieri collimato, dando quindi soddisfazione ai bisogni espressi dai propri sostenitori, delle classi sociali che hanno pensato di trovare nella sinistra un punto di riferimento utile al miglioramento delle proprie condizioni quotidiane.
Invece, il liberismo esasperato dalla guerra, che con questa stessa si autoesaspera e si fa ancora più privatizzatore, imperialista e dominatore finanziario, sfruttatore all’ennesima potenza di ogni risorsa sulla Terra, riesce ad insinuarsi in questo semplicissimo rapporto di causa ed effetto e a scombinarne i giochi.
La destra vince puntando su apparenti soluzioni di piccolo-medio termine, mentre la sinistra elabora piani ben oltre i quinquenni. La destra vince puntando sull’esacerbazione delle paure e dei timori, mentre la sinistra – che invita ad un esame più sincero e chiarificatore delle concause dei fenomeni – viene vissuta come “buonista“, troppo garantista e troppo poco decisionista.
Ma la destra vince anche, questo è bene sottolinearlo, per il sostegno economico che le viene dato da un apparato che va dal grande capitale (nazionale, continentale ed extra…) alla grande informazione (direttamente appartenente e quindi dipendente da gruppi economici transnazionali); mentre la sinistra deve farsi largo nel mondo della radiotelevisione e del web impattando con tutte le difficoltà del caso. Non ultima la censura governativa che colpisce le opposizioni (Erdoğan insegna…).
Eppure certe problematiche sono chiaramente endemiche, riguardano tutti i periodi di questa modernità e, quindi, la linea nera sottile e solidissima delle destre, da Ankara a Roma a Madrid non è spiegabile solamente in questa chiave.
Abbiamo sopravvalutato gli elettorati? Il singolo cittadino? Le comunità anche organizzate e riorganizzate per quello che chiamavamo una ventina di anni fa “un altro mondo possibile“? E’ probabile che anche questo sia accaduto, ma ciò che preme è rimanere alla verificabilità dei fatti: e i fatti ci dicono che anche in presenza di governi di sinistra può, anzi vince la destra. Quindi non vi è garanzia alcuna che alle buone politiche sociali corrisponda inevitabilmente un voto di riconferma di quella strada progressista.
In prospettiva
Ed allora cosa dovremmo fare? Pensare che tutto è inutile e che, quindi, la sinistra è condannata alla sconfitta quasi permanente? I capovolgimenti climatici e le instabilità che ne derivano condanneranno il liberismo ad una prematura dipartita. La sinistra dovrebbe incontrare questa domanda della Terra e fare tutto il possibile per sostenere un trapasso anzitempo del sistema dell’esasperazione profittuale e finanziaria, dello sfruttamento feroce e indiscriminato.
E’ da qui che prendono vita tutte le forme autoritarie di Stato, tutte le involuzioni di un popolo da una ricerca dell’autogestione ad una sostanziazione maggiore del ruolo dei governi e del potere delegato. La sinistra perde perché o governa troppo o governa troppo poco. E rischia di fare entrambe le cose all’ombra delle compatibilità con quel liberismo e quel capitalismo che dovrebbe combattere.
La reazione spagnola al governo di Sánchez somiglia molto alla paura che avevano i proprietari terrieri, i latifondisti e i padroni dell’economia davanti al consolidarsi della repubblica e dei governi popolari.
C’era il “pericolo bolscevico” ad est allora. Oggi c’è Putin con la sua Russia tutt’altro che sociale, per niente di sinistra, men che meno internazionalista e comunista. Oggi c’è la guerra in Europa. In Ucraina, nel Mar Nero e non ultima nei Balcani, negli scontri etnico-politici (comunque sempre nazionalisti) tra serbi e kosovari nelle regioni settentrionali dello Stato messo in piedi dalla NATO e dall’Europa.
Non solo il vento di destra si alza da Est ad Ovest, investendo il “democratico” Occidente e sconquassando la già fragile unità continentale. Anche quello degli opposti imperialismi che sovrastano quelle piccole patrie che vorrebbero emergere dal pantano della storia moderna, mentre la sinistra sembra sempre più impotente, inadeguata ai tempi e inefficace nella lotta contro tutte le ingiustizie…
MARCO SFERINI
30 maggio 2023
foto: screenshot tv