London Bridge is down, il ponte di Londra è crollato. È questa la frase in codice con cui la dipartita della monarca inglese è stata comunicata alla neo-prima ministra Liz Truss e agli addetti ai lavori delle colossali esequie, ampiamente previste come il più esteso e solenne spettacolo funebre di questo inizio di terzo millennio.
Elizabeth II Windsor, nota in tutto il mondo come “The Queen” anche prima della sciropposa (e assai criticata dai lealisti) serie Tv dedicatale recentemente da Netflix e in Italia antonomasticamente come “la regina,” (anche senza “Elisabetta”), è spirata ieri nel castello scozzese di Balmoral alla veneranda età di anni novantasei.
Suo marito, il principe Philip Mountbatten, sposato nel 1947, era scomparso l’anno scorso. Nel 2015 era diventata la monarca britannica più longeva, superando il record della regina Vittoria. Sì, è stata la monarca femminile che ha regnato più a lungo in assoluto.
Non era immortale “Elisabetta”, come ci si era abituati ormai a considerarla, vedendola infinite volte punteggiare rotocalchi, cine e tele giornali, e lungo tutto il passaggio dai media tradizionali a quelli digitali.
Sotto la tronfia magniloquenza delle cerimonie ufficiali, era un essere umano la cui finitudine l’istituto monarchico ha sempre gestito con imbarazzo, dovendo attraversare i marosi della successione.
Era la regina del Regno Unito, ma questo titolo ne abbracciava in modo ecumenico molti altri. Al momento della dipartita erano oltre cinquanta stati, tra cui Canada, Australia, Nuova Zelanda, Sud Africa, Pakistan e lo Sri Lanka: tutti sotto l’ombrello del cosiddetto Commonwealth, l’etichetta con cui era stato effettuato il rebranding dell’Impero, che aveva finalmente cominciato a disgregarsi subito dopo la Seconda guerra mondiale, e del quale era succeduta al padre Giorgio VI come capo di stato, un ruolo non trasmissibile a livello dinastico e che ora bisognerà trasmettere all’erede e successore Charles in qualche modo. Prima che si disgreghi del tutto, come già lasciano intendere vari membri.
La sua incoronazione, il due giugno 1953, fu la prima a essere trasmessa in diretta televisiva, introducendo in pieno gli allora nuovi media novecenteschi nella gestione dell’ancestrale rapporto fra monarchi e sudditi, una commistione abbracciata a malincuore dalla casa reale inglese nel suo complesso, visto anche la tutt’altro che edificante – secondo la buona vecchia morale borghese – condotta di molti dei suoi i figli: il primogenito e futuro re Charles con le sue vicissitudini coniugali, la figlia Anna, ma soprattutto il terzogenito Andrea, impelagato in fin troppo serie brutte storie di molestie sessuali.
Sarebbe iniziata così un’interminabile cavalcata nei privilegi inimmaginabili che i membri della monarchia costituzionale britannica conservano a tutt’oggi in barba al ridimensionamento tardivo e mai sufficiente delle altre monarchie europee. Una cavalcata punteggiata da garbati movimenti della mano e del capo in cenno di saluto che avrebbero sfinito le articolazioni di chiunque, segnata da infinite visite ufficiali e inaugurazioni, dall’avvicendarsi di capi di stato, primi ministri, papi e uomini di chiesa, da epocali sommovimenti storici, conquiste e sconfitte civili, il conflitto in Irlanda del Nord, la devoluzione di Scozia, Galles – e appunto, Irlanda del Nord – e, last but not least, l’ingresso del paese in Europa nel 1973 e la sua uscita sbattendo la porta, nel 2016.
Tutto attraversato vestendo colori sgargianti e copricapi che sostentavano l’esistenza di migliaia di rotocalchi e davano da mangiare alle famiglie di milioni di giornalisti.
Il padre Giorgio VI era salto al trono nel 1936 dopo l’abdicazione di suo fratello, Edoardo VIII, facendone l’erede presunta, o presuntiva, come si dice in gergo. Nonostante certe scomode prossimità coi nazisti – un nome tedesco, Saxe-Coburg and Gotha cambiato in tutta fretta in Windsor nel 1917, un principe consorte, Philip, cognato di gerarchi nazisti, e lo stesso Edoardo che con sua moglie Wallis Simpson era un fan dichiarato di Hitler – la famiglia reale inglese, a differenza di quella italiana (ottantanove anni fa esatti ieri) non se l’era data a gambe davanti al pericolo nazista ma era “rimasta sul campo,” guadagnandosi quella fede e rispetto della popolazione con cui è riuscita ad attraversare tutto il Novecento.
Un credito unico e irripetibile nell’Europa sconfitta, occupata e da ricostruire, macchiato iconograficamente solo qualche anno fa, quando il “Sun” pubblicò la famigerata foto che la ritrae, bimba, mentre fa il saluto romano stimolata dal succitato Edoardo: la copertina punk dei sogni. Ma un credito che, tutto sommato, Elizabeth II ha saputo amministrare egregiamente nel corso del suo interminabile regno, e che ora rischia di essere dissipato in pochi anni dai suoi successori/congiunti.
Perché se la prima era elisabettiana è ricordata come un’era di espansione e potenza indiscusse per l’Inghilterra, la seconda, come ha scritto lo storico Trestram Hunt, sarà ricordata in un segno differente: come quella decadenza della potenza nazionale e soprattutto dell’impero.
Tra il 1945 e il 1965 il numero delle abitanti delle colonie soggetti al monarca britannico era precipitato da settecento a cinque milioni. Poi, a tre anni dalla sua elevazione al trono, la crisi di Suez e la tracotanza di Anthony Eden seppellirono del tutto le velleità di superpotenza mondiale della Gran Bretagna, portando avanti un declino di lunga durata iniziato già con la Grande guerra.
In tutto questo, la regina Elisabetta, sempre diligentemente appassionata di cani, caccia, safari e cavalli, avrebbe assistito sorridendo, salutando e inaugurando al passaggio del paese attraverso l’era keynesiana e la sua dialettica fra politica fiscale e politica monetaria, l’imporsi del thatcherismo e lo smantellamento dell’industria nel Nord, mentre il settore finanziario cresceva a dismisura e la terziarizzazione dell’economia precedeva al galoppo, e mentre i suoi ammiratori e osservatori – sudditi, non cittadini – mai cessavano di elogiarne la capacità di non intromettersi negli affari di stato, come disposto dalla costituzione (orale) nazionale.
Il paese sarebbe entrato poi nel pieno tumulto delle sue relazioni con il blocco europeo, dal suo ingresso nella Comunità economica fino al trauma del “populismo” e del referendum su Brexit nel 2016, e il travagliato processo di uscita con i suoi strascichi.
E quando perfino l’Economist sostiene, come ha fatto una volta, che la monarchia “è un ideale trascorso” è evidente che una certa “modernizzazione” andasse non solo accettata, ma colta.
Per far meglio gradire l’assurdità della monarchia, casa Windsor ha dunque con riluttanza finito per abbracciare non solo l’umanizzazione dei propri membri, ha – inizialmente controvoglia – intrapreso un percorso di avvicinamento con i sudditi attraverso il capillare controllo della propria immagine: dalla riluttanza con cui accettarono il (dannoso) documentario a colori che li ritraeva nella loro non molto significativa intimità degli anni Sessanta, fino all’ingresso della monarca su Facebook, ormai già anni fa.
Una colossale fiction che ha accompagnato le vite di generazioni di britannici e non solo, tappandole in una bottiglia di voyeuristico intrattenimento. E che distoglie da certi aspetti “plutocratici”.
Tanto per dire: pur essendo oggetto di misteriose speculazioni, non essendo mai apertamente rivelata e documentata, la sua ricchezza è stata recentemente stimata attorno al miliardo di sterline. “Forbes” ha valutato le sostanze della monarchia a oltre settanta miliardi complessivi, mentre la più sobria “lista dei ricchi” del “Sunday Times” la colloca intorno ai trecentocinquanta milioni (sempre di sterline).
A dirla tutta, il breviario della riservatezza nelle faccende politiche e costituzionali non è stato sempre seguito con specchiata fedeltà. In una delle sue inchieste, il “Guardian” ha rivelato come Elizabeth II abbia fatto uso delle sue prerogative per esaminare più di mille leggi prima che raggiungessero il parlamento. E i memoranda fuoriusciti dagli archivi nazionali mostrano come abbia fatto pressione sulla legislazione sulla trasparenza negli anni Settanta per garantire che la sua ricchezza privata rimanesse segreta. N
el frattempo, a fronte della intermittente ritrosia a immischiarsi in faccende che non la riguardano, arrivavano altri strappi verso la modernità. Secondo l’ex leader Tory John Major, fu una decisione sua e non del governo quella di iniziare a pagare le tasse; e secondo altri storici fu solo grazie a lei che il sistema di primogenitura nella linea di successione è stato abolita nel 2011. Passi da gigante.
La botta dura al consenso monarchico giunse con la freddezza dimostrata dalla defunta regina nei confronti della nuora Diana Spencer, la cui tragica fine nel 1997 colse il paese in un esorbitante profluvio di dolore e orsacchiotti. La percepita durezza di Elizabeth e il suo comportamento freddo anzichenò nei confronti di un lutto che aveva catturato l’immaginazione e l’empatia di milioni di soggetti costarono molto in termini di sondaggi e gradimento.
Ma la rotta fu presto ristabilita grazie a un ammorbidimento della propria immagine e di quella della “ditta” (così è chiamata la famiglia reale dai suoi fautori nazionali e internazionali a riprova del fatto che nulla resiste al mercato, nemmeno i due corpi del re studiati da Kantorowicz).
Queste legioni di consenso sono popolate però di elisabettiani, non di monarchici. E resta da vedere se il regno dell’ex erede al traino, Carlo, che finalmente può ascendere al trono negatogli dalla longevità materna, si confermerà in grado di continuare la geniale non-opera della madre: traghettare l’istituto monarchico dall’istituzione feudale che è sempre stata e rimane alla liquidità sociale e culturale che caratterizza il declino dell’Occidente nel suo complesso.
Adesso, quello che viene in mente è soprattutto il titolo di un formidabile album degli Smiths: The queen is dead. In questo momento, milioni di meme la ricorderanno, traghettandola in quell’universo digitale dove non si muore mai, anche se lo si vuole.
LEONARDO CLAUSI
Foto di Niklas Jeromin