Chi reclama dei diritti, ancor di più oggi rispetto ad anni e anni fa, viene percepito e vissuto come un fastidio da allontanare, da marginalizzare, da rendere innocuo per non rovinare la beata immagine delle riforme del mercato del lavoro. Riforme tutte tese a migliorare lo stato di impiego per alcuni, di sfruttamento, invece, per chi come noi ritiene ogni impiego comunque ciò che è realmente, ossia la prestazione della propria mano d’opera o di intelletto ad un “datore di lavoro”, quindi a qualcuno che percepisce, privatamente, i frutti di quel lavoro.
Il “miglioramento” è e deve essere la parola d’ordine da non discutere: anche quando si tende a fare di una “riforma” (le virgolette sono necessarie vista la parzialità del termine, del suo assumere una differente opzione politica, economica e sociale a seconda dell’adoperante) una sorta di sperimentazione, come nel caso dei famigerati voucher, per verificarne sul campo l’effetto che producono.
E l’effetto, per quanto riguarda il pagamento delle prestazioni di sfruttamento (lavoro) da parte dei datori (padroni) di lavoro (sfruttamento), alla fine risulta essere questo: da pseudo intenzione di leva di emersione del lavoro pagato in nero, si sono trasformati in costante non-contratto, in pagamento consuetudinario ormai per centinaia di migliaia di giovani e meno giovani che vengono assunti ad ore e pagati con questi cedolini di riscossione di un ben misero compenso.
Non si può, infatti, parlare di salario. Il salario è un termine che dovrebbe essere usato per definire quei vecchi, cari rapporti contrattuali stabili: i tanto vituperati “lavori fissi”. Tanto è vero che, sui quotidiani comunisti di inizio ‘900, quando la lotta di classe era fortemente sentita dai proletari per via della misera nera che si viveva negli strati più disagiati della popolazione, si titolava: “A salario di merda, lavoro di merda!”, con un bel punto esclamativo finale che stava a significare una cosa soltanto: lotta, sciopero, intransigenza.
Oggi non esiste la lotta, esiste solo la rabbia di un proletariato giovanile e di media età che non si organizza, che non trova sponda nei sindacati, che non ha un partito comunista e una sinistra più vasta di riferimento.
Ondeggia politicamente tra la canalizzazione della rabbia su piani populisti e su riconversioni della medesima in atteggiamenti di odio per il migrante che, come molti anni fa, viene ingigantito come problema sotto la lente mediocremente xenofoba incastonata tra le parole: “Ci rubano il lavoro”.
Invece la sottrazione dei diritti del lavoro, e non della sua quantità, è effetto di cause che non fanno minimamente riferimento al problema delle migrazioni: sono i governi, agenti politici dei privilegi borghesi, numi tutelari degli interessi del grandi possidenti, dei ricchi capitalisti d’Alpe e d’Oltralpe, a generare, in ultima istanza, le patologie più evidenti della crisi economica e del lavoro che è ancora in atto.
Le parole del ministro Poletti sulla “fuga dei cervelli” sono soltanto una verità che viene fuori molto serenamente, con sincerità: non ha forse il ministro, insieme all’intero governo Renzi prima e Gentiloni poi, promosso e sostenuto la più feroce legislazione in materia di ridimensionamento dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici?
Il famigerato “Jobs act”, questo testo riformatore del mercato del lavoro, non ha flessibilizzato ancora di più i diritti espressi nei contratti che intercorrevano tra padroni e dipendenti? Non ha per caso stabilizzato anche il sistema dei voucher introdotto dai precedenti esecutivi?
L’ha fatto e, per questo, persino la CGIL, sindacato solitamente poco incline ad inimicarsi i cosiddetti governi di “centrosinistra”, ha promosso tre quesiti per abolire tre punti cardine del Jobs act.
Le parole di Poletti, dunque, sono il titolo migliore da mettere al capitolo delle controriforme sul lavoro: chi va via dall’Italia sarà anche prezioso, come ha replicato via Twitter il ministro per provare a rimediare all’ennesima pesante gaffe, ma rimane ciò che ha detto nella prima parte di un intervento non sgangherato ma profondamente sincero, ossia un elemento destabilizzatore che è bene non avere intorno.
I contestatori vadano altrove a contestare. L’Italia ha bisogno di pace sociale, di un manovratore che non si deve disturbare: sta manovrando per proteggere i profitti e i privilegi della classe dominante. Lo fa anche discretamente, dunque, lasciatelo lavorare e non ossessionatelo con questa insopportabile cantilena del recupero dei diritti sociali.
Ce ne sono ancora? E allora, tenetevi le briciole, ammesso che cadano dal tavolo.
MARCO SFERINI
22 dicembre 2016
foto tratta da Pixabay