La complessità dei tempi in cui viviamo pare scontrarsi con la semplicissima banalità di frasi vuote, fatte di ricorrenti insulti che realizzerebbero, in poche parole, la soluzione a drammi che si inseriscono dentro ad incontri di situazioni differenti fra loro e che, per questo, non possono essere trattate alla stregua di un racconto fiabesco.
Le fiabe, oltre tutto, sono potentemente terapeutiche: sono moderne evoluzioni della mitologia classica greca, quindi un aggiornamento psicoanalitico della capacità umana di trascendere il quotidiano attraverso simboli, interpretandolo e provando a soffrire meno durante il corso della vita.
Quindi, dall’epoca delle epoche, oltre alla costante produzione di guerre e genocidi, stermini di massa in nome del potere economico e politico che ha sviluppato tutti i rancori e gli odî possibili, l’umanità ha ricercato di pari passo modalità di gestione della vita, per renderla sopportabile, per fuggire a volte dalla ricerca del “senso” inconoscibile e per provare a scendere sempre più nel particolare giornaliero per avere, qui sì, un ruolo effettivo e non sentirsi smarrita in un universo inconoscibile.
La complessità dei tempi in cui viviamo, dunque, dovrebbe portarci per mano nel disegnare nuovi miti, nuove immagini cui fare riferimento per poter sopportare il peso dell’esistenza, per oltrepassare i confini bui della noia e della depressione che deriva da una osservazione della desolazione culturale e politica, nonché sociale e civil-civica, di ciò che ci circonda.
La consuetudine di un nuovo regime della comunicazione ci sta facendo abituare al protagonismo forzato che, per induzione, viviamo come massimo della libertà di espressione: sui “social” si può dire qualunque cosa, appellare chiunque con insulti, anatemi, utilizzando una violenza così forte da non essere rintracciabile nel recente passato di una letteratura del dialogo e della polemica che era fatta di scambi di lettere sui giornali, di interazioni forse giudicate oggi primitive, ma certamente consone alla necessità di dare tempo al tempo e di ragionare sui concetti; soffermarsi, pertanto, su quanto veniva detto dal nostro avversario o competitore culturale e politico, per potergli adeguatamente rispondere.
Questo elogio della lentezza è necessario, perché la velocità è nemica del pensiero ed è invece amica dell’improvvisazione, della cialtroneria individualista, dell’esaltazione di tante micro espressioni di una libertà di parola che diventa oggi la peggiore nemica di noi stessi.
L’abuso delle parole fa torto immediato alla stessa libertà di parola e di pensiero: quanto più si utilizzano gli insulti per rispondere a concetti che non si condividono, tanto più si nega proprio quel diritto costituzionale, umano, da “cittadino” maturo e consapevole.
L’insulto spesso viene servito sul piatto di una ironia trattata con la stessa violenza: non si utilizza il sarcasmo per sottilizzare un argomento dallo spessore evidente, per renderlo più semplice proprio nell’atto della comunicazione popolare; si utilizza l’ironia con cattiveria, con la voluta tendenza a colpire sul personale l’avversario, a ridicolizzarlo, quindi a farne una macchietta così da “inferiorizzarlo” per poterlo gestire con una presunta superiorità etica che sarebbe figlia di una immacolata situazione sociale e civile del cittadino che si riconosce in un governo composto da forze che, almeno al 50% dei partecipanti, giuravano di essere estranee al sistema dei partiti e di volerlo rimanere proprio per marcare la differenza quasi “rivoluzionari” tra il passato delle caste e il nuovo cambiamento, quello del popolo portato al governo da “cittadini” e non da “politici”.
La complessità dei tempi ha distrutto le granitiche certezze dell’immacolata politica pentastellata: ha piegato i più sacri istinti di non contaminazione con i nemici “partiti” alla necessità di cui si fa virtù e ha come mostrato a tutte e tutti noi che tra il dire e il fare, ancora una volta, esiste sempre un mare. Se non un grande oceano.
La costruzione di una rivoluzione dell’esistente non può essere fatta sulla base di una semplice contestazione delle colpe evidenti di una classe politica che ha privilegiato il pubblico rispetto al privato, che si è corrotta moralmente in questo stagno putrido dove ha esaltato ogni politica volta a distruggere i diritti sociali provando a mostrarsi “di sinistra” nel difendere quelli civili.
La costruzione di una rivoluzione passa dalla presa di coscienza di ciò che si è, del fatto che si è sfruttati e che lo sfruttamento prescinde dal governo della nazione.
La complessità dei tempi rimane complessa e, intanto, mentre il governo consolida (o prova a farlo) il suo incerto cammino seppure tra un consenso molto ampio, Internet viene utilizzato come cassa di risonanza della frustrazione umana: ciò sarà anche terapeutico per evitare che a qualcuno scoppi il fegato o prenda una crisi di depressione, ma di politico in tutto questo non c’è davvero nulla.
Tempo, conoscenza, approfondimento. Senza questo trittico nessun recupero e ricrescita della coscienza di classe è possibile e realizzabile.
MARCO SFERINI
25 novembre 2018
foto tratta da Pixabay