È una di quelle partite che non si possono concludere senza un vincitore e un vinto. Non si tratta solo di una grande opera ma di una bandiera e di un simbolo: sulla Tav la Lega si gioca molto, M5S si gioca tutto. Per la base storica della Lega la mazzata sarebbe pesante ma non senza possibilità di riabilitazione, per i pentastellati, dopo l’Ilva, la Tap e Carige, non ci sarebbe recupero possibile. Per questo, dopo la nuova marcia torinese, stavolta meno «madamina» e più politica, con un impressionante schieramento «tutti contro uno», un cedimento secco dei 5S appare impossibile.
C’è però un’incognita non trascurabile. L’esito del calcolo costi-benefici nel merito dell’opera era scontato sin dall’inizio, gli stessi leghisti, in privato, ammettono che l’utilità, nella migliore delle ipotesi, riguarderebbe forse solo la città di Torino. Le cose stanno diversamente per quanto riguarda l’analisi «giudiziaria», quella che attiene alle penali che dovrebbero essere pagate e alla possibilità di aggirarle. Quella perizia non è ancora arrivata e i contatti con la Francia per ridiscutere l’opera non partiranno prima che venga consegnata. Se dovesse certificare l’obbligo di sborsare una penale multimiliardaria, 3 o forse 4 mld, offrirebbe alla Lega un’arma potente per insistere sulla prosecuzione di almeno una parte dei lavori.
È la formula su cui punta il capogruppo alla Camera leghista Molinari: «Come si è trovato un compromesso su altri temi credo che lo si troverà anche sulla Tav», dichiarava ieri da Torino. Si tratterebbe, in concreto, di rivedere il progetto modificandolo in più punti ma lasciando intatta la vera pietra dello scandalo, il tunnel base. A bocce ferme è un’ipotesi inaccettabile per i 5S, che hanno infatti alzato ieri un nutrito fuoco di sbarramento. Scendono i campo Grillo e Di Battista. «È un’opera inutile: ci guadagna solo chi la costruisce», tuona il padre fondatore. Il «sudamericano» è perentorio: «Non va fatta e non si farà». Meno drastiche ma nella sostanza identiche le parole di Toninelli: «A pagare però non sono solo quelle 20mila persone ma 60 milioni di italiani». Significa che solo se bloccare l’opera risulterà ancora più costoso che proseguire i lavori l’M5S sarà costretto a riconsiderare un No che è quasi questione di vita o di morte.
Se i 5S la spunteranno, Salvini indica una via d’uscita che potrebbe rivelarsi l’unica in grado di salvare la faccia a entrambe le fazioni evitando scossoni immediati e violenti sulla tenuta già fragilissima del governo: il referendum. «Se sulla Tav non c’è accordo politico la parola passa agli italiani. Io voterei a favore dello sviluppo e della crescita», anticipa. Di Maio conferma: «Ben venga il referendum se i cittadini lo chiedono». Sarebbe una extrema ratio non indolore. Il referendum vedrebbe una santa alleanza contro i 5S e la stessa materia del contendere finirebbe in secondo piano rispetto alla chiamata alle armi contro «i nemici dello sviluppo». Ci vorrebbe però parecchio tempo, i 5S potrebbero cantare vittoria per il blocco, la Lega dovrebbe incassare comunque il dissenso del suo zoccolo duro. Potrebbe comunque rivelarsi il male minore a fronte di una crisi di governo che Salvini e Di Maio vogliono evitare a ogni costo. Il leader leghista lo ha ripetuto ieri, «Mai alle elezioni sulla base dei sondaggi», e la necessità di stemperare le tensioni giustifica le parole concilianti del leader pentastellato: «La presenza della Lega in piazza per la Tav non mi scandalizza. Ci sono due forze politiche che hanno convinzioni diverse. Proprio per questo c’è il contratto».
In un modo o nell’altro un cerotto verrà trovato. Ma comunque vada a finire sfida della Tav si lascerà dietro strascichi pesanti. Se a cedere sarà la Lega, dovrà alzare quanto più possibile il prezzo in materia di grandi opere e modello di sviluppo per recuperare la base delusa. Se invece i nudi conti in termini di penali costringeranno i 5S a ingoiare anche solo una parziale ripresa dei lavori, il malumore interno arriverà alle stelle. È l’incubo che tormenta in questi giorni Di Maio: essere costretto alla resa non da Salvini ma dalle cruda realtà delle cifre. Proprio come nel rovinoso caso dell’Ilva.
ANDREA COLOMBO
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