Il Matteo Salvini visto domenica sera negli studi di Non è l’arena rilancia la sua consueta ricetta economica per affrontare la più grande crisi economica dal dopoguerra: la Flat Tax. La tassa piatta ad aliquota unica uguale per tutti sembra preannunciare l’inizio di una nuova, più o meno lunga, campagna elettorale. Il Salvini di governo, dunque, appare identico a quello pre-pandemia. L’effetto redistributivo al contrario di questa proposta spesso non è evidente a causa di un’egemonia culturale della destra che viene da lontano.
Frutto di confusione politica e subalternità verso teorie e pratiche con al centro mercato, ipercompetizione e individualismo proprietario. Un’egemonia che ancora recentemente ha diffuso terrore al solo annuncio di una possibile e flebile patrimoniale per i più ricchi. La flat tax è una tassa piatta al 15%, o anche a doppia aliquota, che permetterebbe grandi risparmi per i redditi maggiori, in cambio di briciole per i meno abbienti. L’abbattimento delle entrate determinerebbe una drastica riduzione della spesa dello Stato e dei servizi di cui beneficiano in particolare i redditi minori.
Gli argomenti contro queste obiezioni sono sempre gli stessi, quelli della logica liberista, dello Stato leggero, e dell’effetto volano di una tassazione che libererebbe risorse per i consumi e per gli investimenti permettendo una forte espansione economica e con essa una crescita delle entrate. Come non averci pensato prima! No, in effetti qualcuno ci aveva pensato. Siamo negli anni Ottanta, Reagan inaugura la svolta neoliberista riducendo l’aliquota marginale più alta di venti punti percentuali, realizzando diversi altri tagli alle imposte rivolte alle imprese e alle grandi industrie.
Il primo taglio delle tasse siglato nel 1981 condusse a una riduzione delle entrate pari a 208 miliardi di dollari (valore rapportato al 2012) nei quattro anni successivi all’approvazione. Dal 1982 fino al 1989 il deficit annuale passò da una media che ruotava attorno ai 50 miliardi di dollari degli anni Settanta a superare stabilmente i 100 miliardi, con punte superiori anche ai 200 miliardi di dollari. Contribuì in maniera considerevole alla formazione del deficit un’impennata delle spese militari in chiave antisovietica per armamenti strategici che alimentò uno sforzo finanziario e organizzativo che permise grandi investimenti in ricerca e sviluppo di cui indirettamente beneficiarono in seguito anche i settori civili.
Questa impennata del deficit federale nell’arco della presidenza Reagan, cioè tra il 1981 e il 1989, fece compiere un salto al debito pubblico statunitense dal 40,39 al 60,46% del Pil. L’esperimento della Flat Tax dovette fermarsi molto prima di arrivare alle aliquote proposte da Salvini, il neoliberismo antistatalista fece impennare il debito pubblico e generò i benefici maggiori per l’economia americana grazia agli investimenti statali in campo militare.
Cosa aggiungere? Siamo negli Ottanta, un ciclo economico difficile, ma decisamente migliore dell’attuale; siamo negli Usa del Dollaro moneta mondiale e di uno Stato sociale già decisamente più leggero di quelli dei principali paesi europei; le aliquote massime di Reagan erano superiori a quelle attuali, perché le imposte sui redditi alti e sul capitale da allora sono scese grazie alla competizione fiscale.
Un esperimento in parte abortito, contraddittorio e sostanzialmente fallimentare, al punto che a fronte delle difficoltà economiche che si registrarono successivamente l’amministrazione Reagan approvò un inasprimento fiscale interrottosi solo nel 1988. Curioso riproporre oggi questa ricetta in Italia, col il 160% di rapporto debito/Pil; con differenziali di ricchezza enormi, una produttività stagnante e durante una recessione così profonda da aver fatto cambiare casacca a molti liberisti della prima ora.
Lo Stato è tornato centrale, il mondo discute aspramente di quale ruolo dovrebbe avere nel tempo inedito che stiamo vivendo. Salvini è rimasto a Reagan.
MARCO BERTORELLO
DANILO CORRADI
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