A Torino, ma non meno a Milano e a Roma, con una certa eccezione per Bologna e con l’endemico astensionismo partenopeo, le periferie delle grandi e grandissime città italiane votano poco, pochissimo o non votano quasi per niente. E’ il primo macroscopico dato che salta agli occhi scorrendo le percentuali e i voti assoluti degli elettori che si sono recati alle urne: nelle cinture metropolitane dove il disagio è crescente, non si trova più una speranza politica, la si è persa nell’incertezza tra un populismo logoro di istituzionalismo a tutti i costi e un sovranismo spaccato a metà tra governismo nordista da un lato e doppiogiochismo dall’altro.
La destra “ufficialmente” perde la tornata elettorale, al netto però della partita di Roma tutta ancora da rigiocare, ma non perde nel Paese: non tanto per un “effetto Draghi” sul voto, che pure si è fatto sentire, quanto per una diffusione sempre più larga dei disvalori e degli interessi liberisti che sono spalmati tra le differenti forze politiche che compongono schieramenti bislaccamente disequilibrati, non più compatti e coesi come ancora accadeva pochi anni fa.
I grandi quotidiani nazionali fanno rimbalzare le dichiarazioni trionfalistiche di Enrico Letta che, giustamente, dal suo punto di osservazione ha avuto successo nella linea che porta avanti insieme a Bonaccini: riunire la sinistra moderata e il centro in una nuova confederazione politica che metta insieme il riformismo progressista e liberale con quello di marca più veracemente liberista (renziani, calendiani e via dicendo…). Tutto questo viene spacciato come “vittoria della sinistra“, mentre si tratta di un prevalere – peraltro in elezioni amministrative – di una impostazione socio-politico-economica di destra.
D’altro canto, la sinistra di alternativa non fa nessun passo avanti: ottiene risultati microscopici e irrilevanti che non premiano il grandissimo sforzo partecipativo delle compagne e dei compagni che hanno fatto campagne elettorali con poche risorse, con tanta passione e tanta voglia di mantenere viva una percorribilità politica per il cambiamento sociale antiliberista e anticapitalista. Non ci sono poi molte analisi da fare in merito: almeno non ve ne sono molte nuove, perché ci troviamo in una fase differente di uno stesso periodo storico che si trascina ormai da molto tempo.
Il “draghismo“, l’unità nazionale nel nome della stabilità economica del Paese, legato a doppio nodo agli sviluppi continentali dettati dalla Banca Centrale Europea, è l’ultima forma di un architettura ingegneristica che vincola le istituzioni ad un sostegno senza se e senza ma alle politiche di tutela dei grandi patrimoni, del primato imprenditoriale su una politica che mortifica la democrazia e che è pronta a barattare altre riforme anti-costituzionali in cambio del pieno sostegno dei gruppi padronali per le future elezioni del 2023.
La sofferenza elettorale del blocco di destra riguarda essenzialmente Lega e Forza Italia e, francamente, è molto difficile poter affermare – come fanno invece alcuni notisti dalle prime pagine dei giornali – che il trittico con Fratelli d’Italia sia definitivamente in crisi. Ad ogni elezione politica queste formazioni si riavvicinano, si saldano e sono capaci di farlo nelle condizioni di litigiosità più aspre. La storia del Paese negli ultimi quarant’anni è piena di contraddizioni che sembravano insanabili, di screzi monolitici che invece si sono dissolti come neve al sole nel momento di ritrovare un modo per conquistare la via di Palazzo Chigi.
Forse il berlusconismo politico si è esaurito definitivamente, ma di sicuro ha lasciato tante, profonde cicatrici nel corpo martoriato di una Italia preda tutt’ora di una pandemia che diventa sistemica, che è un interfaccia obbligata per capire le prossime mosse tanto del governo quanto delle singole forze politiche che lo compongono e lo sostengono in un Parlamento che è lo spettro di sé stesso, a cui fa ombra un esecutivo veramente ingombrante per la democrazia rappresentativa e per quella sociale.
La sinistra di alternativa, se si pone come obiettivo ancora la trasformazione sociale, non può pensare di ricostituirsi e rifondarsi passando dalla riproposizione di uno schema di centrosinistra, ma riponendo fiducia in valori e programmi che siano altro dai blocchi attuali.
I risultati delle liste dove eravamo presenti con Rifondazione Comunista mostrano delle differenze locali che sono molto poco avvicinabili in una valutazione compiutamente omogenea e disinvolta: non solo per la costruzione di queste alleanze che variano da comune a comune e paiono più delle monadi isolate che progetti legati da un tratto comune e comunicante; ma piuttosto per la mancanza di un progetto politico nazionale che sia declinato sui territori. Ci si unisce o si resta divisi, a seconda dei casi, non per strategie costruttive ma per tattiche distruttive. E’ un corto vedere, quello appena poco dopo la propria spalla, di lato, nemmeno verso un timido, vicino orizzonte.
Il progetto di Letta e Bonaccini, quello di un nuovo centrosinistra allargato ai Cinquestelle da un lato e a Sinistra Italiana dall’altro, includente i riformisti renziani e calendiani, è irricevibile perché nega i minimi presupposti per tentare di inserire in un perimetro simile politiche di riforma sociale che abbiano un ruolo incisivo nella sintesi finale per un nuovo governo tanto locale quanto nazionale.
Separare il momento elettorale da quello più particolarmente politico, quello della quotidianità delle relazioni extra-istituzionali (ma non a-istituzionali), dalla riconnessione tra corpi intermedi, partiti e base sociale è impossibile: ci condannerebbe ad uno strabismo contraddittorio, improduttivo, generatore di nuovi cortocircuiti che farebbero definitivamente deflagrare quel poco che rimane dell’alternativa di società rappresentata dalla sinistra cosiddetta “radicale“. Occorre trovare un giusto mezzo, una terza opzione per uscire da queste impasse che si protraggono da tanto tempo.
La crisi sociale e la crisi politica vanno di pari passo. Ma non possiamo risolvere la prima, o almeno provarci, se stiamo con le forze politiche che la alimentano. Tanto meno possiamo risolverla se non contiamo altro che su noi stessi, se, nonostante la nostra volontà, la domanda di sinistra di alternativa nel Paese non riemerge perché non è una questione volontarista, ma strutturale, congenita agli inviluppi liberisti del ciclo capitalistico pandemico e post-pandemico.
Non possiamo però crearci alibi e affidarci al passare del tempo, allo stare ad assistere allo scorrere degli eventi, abdicando al ruolo che tocca ad un partito, che tocca ad una sinistra antiliberista. Da queste elezioni amministrative usciamo con molti dubbi e tante incertezze. Ma non è detto che sia un male: dobbiamo vedere e riconoscere la nostra “cattiva coscienza” come prodotto tanto del nostro splendido isolazionismo purista, quanto dello slancio unitario con un centrosinistra che ci obbligherebbe a compromettere le nostre convinzioni, la nostra identità politica che non è solamente racchiusa in un simbolo, ma che deve tornare ad essere un progetto largamente condiviso.
MARCO SFERINI
5 ottobre 2021
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