La rabbia è energia, mi ha detto un amico. Forse lo sapevo, ma su quella frase ho riflettuto politicamente: un vizio, una deformazione passionale di vita. Eppure la rabbia è energia anche politica se solo la si incanala nella giusta rivendicazione di diritti sociali e civili che per troppo tempo abbiamo considerato acquisiti e dati per scontati.
Nel corso degli anni ’90, all’albeggiare del berlusconismo primitivo, eravamo ancora illusi da un sentimento intellettuale dominante nella cultura italiana, da una pervasività della quotidianità delle nostre vite tutta intrisa di solidarietà e uguaglianza come valori della “religione civile” e laica di una Costituzione tanto inapplicata quanto comunque incontestabile punto di riferimento per chi anche si mostrava recalcitrante nel metterne in pratica i dettami più diretti al riconoscimento del piano egualitario di tutti i cittadini.
C’è stato, dunque, un lungo tempo di vita della Repubblica in cui si poteva cancellare la scala mobile, invertire una tendenza di conquiste operaie e del mondo del lavoro generalmente intese, ma il punto di non ritorno non poteva essere sorpassato: certi valori erano laicamente sacri.
Metterli in discussione avrebbe voluto dire stravolgere l’immaginario collettivo che la Costituzione aveva creato: una società che, in quanto costituzionale, era antifascista di per sé, nonostante i tanti rigurgiti neofascisti cui abbiamo assistito nel corso degli anni ’60 e ’70, gli anni di piombo, del terrorismo, delle trame segrete di Ordine Nuovo e di Ordine Nero, dei servizi deviati e di logge massoniche che non si comprendeva (allora) bene quale ruolo avessero nell’essere più potenti delle istituzioni repubblicane.
Poi la forza del movimento operaio e dei lavoratori è stata fatta esaurire progressivamente da un logorio delle fondamentali pietre angolari su cui poggiava la sicurezza di un contratto nazionale, la certezza di una pensione, la fine quindi di un percorso di vita che si poteva intravvedere iniziando a fare moltissimi sforzi economici per promuovere l’istruzione universitaria dei figli (“Anche l’operaio vuole il figlio dottore”, cantava giustamente Paolo Pietrangeli in “Contessa”).
Il liberismo si è sostituito alla cultura e alla pratica liberale delle forze governative, un intero pseudo mondo socialista è crollato come un castello di carta e a difendere i valori di libertà, giustizia sociale e uguaglianza sono rimasti coloro che volevano la “rifondazione comunista”, quindi la messa in essere di una pratica politica che riattualizzasse i princìpi sociali dell’unità dei lavoratori, della loro forza dinamica nella lotta di classe, chiamandoli ad una riproposizione di fiducia nel movimento anticapitalista, per combattere i nuovi padroni, i nuovi schiavismi che si vedevano spuntare all’orizzonte sotto il nome di parcellizzazione del lavoro, precarietà e, in particolar modo, privatizzazioni.
Tutto per il bene comune, per la crescita economica di una intera società. Abbiamo potuto vedere nei trent’anni successivi che le critiche che muovevamo a questo meraviglioso impianto di magnifiche sorti e progressive proposte dal padronato e dalle forze del centrodestra (e del centrosinistra) si sono tragicamente dimostrate tutte vere: la divisione nel mondo del lavoro ha prodotto una concorrenza spietata tra operai, studenti e disoccupati, una guerra quindi tutta interna al mondo dei nuovi poveri e le migrazioni da terre lontane, fatte di barconi ricolmi di esseri umani ridotti alla disperazione, hanno consentito di aggiungere un argomento in più: il patriottismo, la conservazione autoctona del lavoro, quindi della presunta ricchezza concessa da finanzieri, speculatori e “imprenditori” nei confronti dei moderni proletari.
Quindi, fino ad oggi, per decenni, la anticulturale retorica del razzismo a buon mercato, ha alimentato una consapevolezza antisociale formata sulle basi di una cultura priva di cultura, fatta di superficialità delle informazioni e di luoghi comuni tanto vecchi da poterli far risalire all’inizio del “secolo breve”.
Il razzismo è diventato politica, è penetrato nel recinto della legittimità del dialogo comune e ha perso lo stigma che gli era stato posto dopo l’infamante pagina delle leggi razziali del 1938 e il successivo passaggio di discontinuità fatto con l’Assemblea Costituente.
Così, venendo meno tutto un impianto culturale, sociale, politico e civico fatto di ricerca dei medesimi diritti per tutti insieme ai doveri, anche la sinistra e i comunisti hanno perso la loro ragione d’esistenza prima nella aule parlamentari e poi anche nella società propriamente detta.
Simili problematiche di esistenza e di rappresentanza le ha percepite anche il mondo sindacale, così pure quello della cooperative e quello dell’associazionismo culturale progressista.
Il “Paese nel Paese” di pasolinana memoria si è frantumato innanzi alla prepotenza dell’egoismo propugnato dal mercato, da una logica arrivistica del “si salvi chi può” che è l’esatto contrario del “salviamoci tutti insieme” provando a vivere e non a sopravvivere.
Dopo la fase berlusconiana, costituente tanto del modello liberista quanto di quello dell’abbandono della ricerca, dell’approfondimento culturale delle problematiche sociali e civili, la stagione dei governi di centrosinistra sia politici sia tecnici ha provato addirittura ad adeguare la Costituzione repubblicana all’impianto egocentrico massimo del liberismo. Tentativo fallito il 4 dicembre del 2016. Ma la ferita superficiale rimane e ogni tanto qualcuno prova ad indicarla come monito: “Se fosse passata la riforma Renzi-Boschi…”.
Se fosse passata, oggi ci troveremmo senza nemmeno una protezione formale nei confronti di una terza fase (impropriamente chiamata “Terza repubblica”) che ha tolto di mezzo le consuete tradizionali forze politiche derivanti dall’eredità post-comunista e post-pentapartitista, mettendo al loro posto quelle che vengono denominate forze “populiste” per distinguerle dalla classica destra beceramente fascista e pure da quella classicamente liberale.
Così, alla fine di questa triste favola italiana, si saldano due interpretazioni della società diverse eppure molto simili tra loro: entrambe accettano il punto di vista del capitalismo come equilibrio unico nella gestione del potere economico e nella conseguente impostazione delle linee di azione politica nel quadro complessivo nazionale.
Ma la rabbia è energia e l’energia nasce soprattutto quando la coscienza di essere sfruttati emerge da un torpore pluridecennale: singole realtà produttive scioperano; i morti sui luoghi di lavoro sono migliaia e migliaia e non c’è giorno in cui questo stillicidio abbia un attimo di sosta.
Eppure non c’è nessuno sciopero generale, nessuna unità nelle lotte sindacali che ispiri un moto spontaneo di rabbia tale da farci dire: “Eccola, è tornata la coscienza di classe!”. Questa speranza di poter esclamare una così bella fonte d ricchezza sociale appare molto lontana.
Poi succede che, guardando “Propaganda live” di Diego Bianchi su La 7, vedi le immagini della piccola manifestazione di protesta, dello sciopero spontaneo di, forse, duecento braccianti: migranti. Prendono dei cartoni e improvvisano dei cartelli con sopra la foto di Soumaila Sacko, il giovane sindacalista dell’USB ucciso a colpi di lupara apparentemente perché stava prendendo alcune lamiere in una fabbrica abbandonata per aiutare i suoi amici a costruire qualche catapecchia degna di questo nome, indegna di potervi vivere per lavorare per tre euro al giorno.
Succede, quindi, che prende la parola un altro sindacalista, un amico di Soumaila, Aboubakar Soumahoro, anche lui dell’USB e in un italiano limpido, fluido, quasi irrintracciabile nei discorsi dei nostri giovani di oggi, privi di una educazione scolastica e civica vera, elenca uno per uno i motivi della rabbia: dallo sfruttamento dei caporali alla penetrazione ‘ndranghetista nella società calabra che opprime la vita della popolazione mentre le destre provano a mostrare ancora una volta che il problema sono i migranti, che la ricchezza dei posti di lavoro sono loro a sottrarla agli italiani.
Aboubakar esprime tutto questo con una passione rabbiosa, genuina, umanissima. Bisogna ascoltarlo per capire che la sinistra, i comunisti, il sindacato, la classe sociale dei proletari moderni ha un futuro se fa crescere compagne e compagni giovani come lui con una cultura critica capace di spiegare semplicemente la complessità dei rapporti di produzione, dello sfruttamento, decostruendo tutte le banalità del razzismo di Stato, della costruzione di quella che oggi viene chiamata “narrazione” sui migranti come minaccia, pericolo per la stabilità sociale, economica e civile di una Italia precipitata nel baratro dell’ignoranza egoistica.
Bisogna ascoltarlo Aboubakar, ed è per questo che qui sotto trovate ora il video con l’intero intervento fatto al termine dello sciopero dei braccianti per chiedere verità e giustizia per Soumaila Sacko.
MARCO SFERINI
9 giugno 2018
Tratto dal canale You Tube di Repubblica.it