Mentre gli israeliani e Hezbollah si scambiano colpi, relativamente contenuti, sul confine, lasciando sul terreno morti e feriti, i tamburi di guerra suonano anche nelle città del Libano meridionale e nella capitale Beirut. Venerdì migliaia di sostenitori di Hezbollah e palestinesi si sono radunati a Dahiyeh, quartiere sciita di Beirut, sventolando bandiere palestinesi e gridando «Siamo tutti con te, Gaza».
L’indignazione era palpabile. Altri hanno tentato di assaltare l’ambasciata americana ma sono stati trattenuti dalle forze di sicurezza libanesi. «Forse è giunto il momento che i popoli della regione alzino la loro voce di fronte alla tirannia americana», ha detto Hashem Safieddine, alto funzionario di Hezbollah, rivolto ai manifestanti.
I villaggi del confine libanese-israeliano, si sono trasformati in città fantasma mentre incombe lo spettro di un’altra guerra. Hezbollah dichiara di essere militarmente preparato a combattere a sostegno della causa palestinese. Tutti aspettano la parola di Hassan Nasrallah, il leader carismatico, rimasto in silenzio dallo scoppio della guerra tra Israele e Hamas.
Lo Stato libanese è assente dal dibattito pubblico in cui si discute sull’opportunità che il Libano entri in guerra con Israele. Il primo ministro Najib Mikati ha osservato che «la guerra è ancora limitata alla Striscia di Gaza, ma ciò che sta accadendo nel sud del Libano e la caduta dei martiri giorno dopo giorno deve finire (…) Per questo la nostra richiesta costante ai paesi amici è di esercitare la pressione necessaria per fermare le provocazioni e le aggressioni israeliane contro il Libano».
Un gruppo di deputati indipendenti ha firmato una petizione in cui si afferma che, pur essendo «dalla parte del popolo palestinese», il Libano non può essere «trascinato verso la distruzione». Secondo Abdallah Bou Habib, ministro degli Esteri libanese, «nessuno vuole la guerra. Non il Libano, non Hezbollah, non l’Iran».
Nel frattempo i vicoli e le stradine dei campi profughi palestinesi in Libano pullulano di manifestanti. I colori della bandiera palestinese dominano il panorama di case fatiscenti e il groviglio di fili elettrici. Manifestazioni si susseguono in tutti campi, da Shatila a Burj al-Barajna, Burj al-Shamali, Ayn al-Hilwe, Al-Buss, Nahr al-Bared, Rashidiyya, perfino nel piccolo campo di Wavel a Beqaa.
Oltre 400mila profughi palestinesi vivono lontani dalla terra dei padri. La maggioranza vive ancora nei miseri e pericolanti campi. Sono qui con le chiavi delle case dei loro nonni e bisnonni che sono stati costretti ad abbandonare la terra nativa nel 1948 e 1967. Il paese ospitante, a tratti amico e tratti nemico, di fatto li espone all’emarginazione e all’isolamento.
Le condizioni ambientali, sociali, economiche sono devastanti. Disillusi dalle retoriche promesse, ogni giorno che passa perdono la speranza di costruire una vita normale. Non importa quale colore politico professano o quale sia loro il loro livello di scolarizzazione e il livello economico, tutti coltivano un sogno: la Palestina e il diritto al ritorno.
Queste persone hanno visto il sangue delle loro madri, padri, fratelli e cugini correre sulla bandiera della loro inesistente nazione. Hanno vissuto massacri, distruzioni, miseria e ingiustizie. Tutto ciò ha scavato distanza e odio nelle loro menti e nei loro cuori verso l’occupante che impedisce loro di provare grande empatia con le vittime civili israeliane.
Il fragore di spari a festa degli affiliati ad Hamas, la distribuzione di dolci sono stati la prima reazione dopo l’aggressione del 7 ottobre in Israele. I gruppi di Hamas sono presenti in tutti i campi in Libano e hanno recentemente tentato di prenderne il controllo con l’aiuto di Hezbollah.
La preoccupazione per i parenti sotto il bombardamento a Gaza presto si trasforma in una rabbia che grida vendetta. «Sangue chiama sangue, sappiamo che ci uccideranno a migliaia a Gaza, sappiamo che le nostre madri piangeranno a lutto il nostro martirio. Sappiamo che pagheremo un prezzo molto alto. Ma alla nostra generazione che ha perso la speranza nel futuro non rimane altro che ricercare dignità almeno nella morte» dice Mohammad, un simpatizzante di Hamas nel campo di Shatila.
«È evidente che tutto questo porterà alla radicalizzazione dei nostri giovani nei campi, le bandiere di Hamas e delle fazioni radicali sono già nelle mani dei nostri giovani più che mai» dice Hissam, insegnante nel campo di Rashidieh. E la febbre di battaglia contagia anche i partiti palestinesi tradizionalmente più moderati. «Sono il sangue della mia patria, vivo per la mia patria e non per il futuro» dice Ahmed Habet, membro del partito Fatah nel campo di Burj al-Barajneh.
I rami delle fazioni di Hamas, Fatah e il Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp) e tutti gli altri sono ansiosi di aprire un secondo fronte contro Israele. Attendono solo il semaforo verde da Hezbollah, che controlla capillarmente il confine tra i due paesi.
Tutto questo avviene nel Libano che è senza presidente da quando, lo scorso ottobre, è terminato il mandato dell’ex capo di Stato Michel Aoun. Il Parlamento non è riuscito a eleggere un successore in 12 sedute. E la mancata elezione di un presidente, a cui la costituzione riconosce anche il potere esecutivo, ha aggravato le tensioni settarie.
Il paese è già impantanato in una delle peggiori crisi economiche del mondo e alle prese con una paralisi politica senza precedenti, con il suo gabinetto solo parzialmente legittimato. Dal 2019 il Libano fa registrare il tasso di inflazione nominale annuale dei prezzi alimentari più alto al mondo, pari al 350%. E la moneta locale ha perso l’800% del suo valore rispetto al dollaro.
FARSHID NOURAI
foto: screenshot tv