Suprematismo governativo contro Magistratura e Parlamento

È molto difficile poter controbattere all’affermazione secondo cui il governo Meloni ha, nella vicenda Almasry, dato seguito ad una operazione di propaganda politica dopo aver combinato un pastrocchio istituzionale...

È molto difficile poter controbattere all’affermazione secondo cui il governo Meloni ha, nella vicenda Almasry, dato seguito ad una operazione di propaganda politica dopo aver combinato un pastrocchio istituzionale di portata internazionale. Giornalisti e commentatori che hanno desunto tutto questo dalla tortuosa spirale di avvicendamenti, di dichiarazioni e di prese di posizione della maggioranza, non si sono arrampicati sugli specchi, ma hanno semplicemente preso atto della realtà dei fatti. E questi, si sa, se sono tali, hanno la capoccia piuttosto dura.

I fatti ci dicono che un comandante libico, accusato dalla Corte Penale Internazionale di essere un criminale contro l’umanità, per aver sottoposto a torture una quarantina di migranti nel lager di Mitiga e aver persino permesso che violenze sessuali fossero comminate a dei bambini, è passato sul territorio italiano per andare a vedere una partita di calcio in quel di Torino. Lì viene fermato, portato in carcere e detenuto secondo il mandato di arresto internazionale. Ma, siccome è un personaggio scomodissimo, nessuno se lo vuole accollare: potrebbe rivelare chissà quali segreti di Stato sulle politiche migratorie.

Potrebbe mettere in imbarazzo, tanto più, l’attuale governo Meloni. E così, grazie ad un vizio procedurale, rilevato dalla Corte d’Appello, i membri dell’esecutivo, prendendo al balzo questa palla, decidono di non rimediare all’incongruenza e rimetterlo agli arresti per consegnarlo alla CPI. Ne fanno un uomo libero. Lo prendono, lo mettono su un volo di Stato e lo fanno rimpatriare. In Libia viene accolto con urla di giubilo e sorrisi a trentadue denti. In Italia inizia il caso politico. Fino a quando, dopo la denuncia dell’avvocato Li Gotti alla Procura di Roma, diventa, su ispirazione propagandistica del governo, una sorta di sfida all’OK Corral tra Palazzo Chigi e Magistratura.

Niente di tutto questo. Perché il procuratore Lo Voi doveva avvisare il Tribunale dei Ministri dell’apertura di un fascicolo di indagine tanto sulla premier quanto sui ministri coinvolti nel caso. Non c’è nessun avviso di garanzia, contrariamente a quanto afferma Giorgia Meloni. Non c’è nessun “amico di Prodi” e “difensore di molti mafiosi” (facendo l’avvocato capita anche di difendere persone di quella risma, oltre che le vittime delle stragi o gli agenti della scorta di Aldo Moro…). Così come non c’è nessun complotto internazionale o magistratuale contro il melonismo governante.

Ma la sindrome da accerchiamento piace alla maggioranza, perché consente di sparigliare le carte, confondere le acque ed evitare il confronto parlamentare proprio sulla vicenda Almasry parlando di inopportunità delle relazioni di Piantedosi e Nordio per via del “segreto istruttorio” che, tuttavia, non è affatto previsto in questi casi. Proprio le Camere vengono trattate alla stregua di un accidente, di un luogo da evitare con cura per non offrire alle opposizioni l’arma democratica del confronto con il governo e con la maggioranza. Questo è il rispetto che ha l’esecutivo di estrema destra nei riguardi del Parlamento.

La vicenda, di per sé, almeno quella giudiziaria, può finire in due modi soltanto: con l’archiviazione dell’indagine; oppure con la trasmissione della richiesta del Tribunale dei ministri al Parlamento per decidere il da farsi nei confronti dei membri dell’esecutivo. E, siccome sia alla Camera dei Deputati sia al Senato della Repubblica questo governo ha una maggioranza solida, c’è da giurare che l’indagine sarà fermata ancora prima che si possa svolgere compiutamente. Dunque, quale sarebbe il pericolo reale per Meloni, Nordio, Piantedosi e Mantovano? Nessuno, tranne quello di dover rendere conto all’Italia di un comportamento che ha qualche tratto differente dalla mera irritualità.

Se Almasry era, come pare essere, un individuo pericoloso, tanto più ricercato dalla Corte Penale Internazionale dell’Aja, dovere del governo era trattenerlo per accertarne meglio la posizione e, dopo tutte le verifiche del caso, inviarlo al giudizio dei togati che ne avevano fatto richiesta di arresto. Invece, poiché rappresentava e rappresenta un elemento di evidente imbarazzo in merito alla gestione delle politiche migratorie, lo si allontana dal territorio nazionale e lo si fa secretando tutta la vicenda: mettendolo su un volo addirittura di Stato, pagato con i nostri soldi e messogli a disposizione per evitare che qualcuno possa intercettarlo, fargli delle domande.

Sembra che vinca, così, non la “ragion di Stato” ma, per l’appunto, il “segreto di Stato“: si ripete, nella lunga, tormentata esistenza della nostra Repubblica, quel ricorso agli “omissis” che ha segnato dalla fine della Seconda guerra mondiale molti momenti oscuri della vita nazionale; là dove si è sempre parlato di stragi, di complotti, di tentativi di colpi di Stato, di sovversione, eversione nera e terrorismo di vario colore. Invece di affidarsi a dichiarazioni di prammatica, il governo, con Giorgia Meloni in prima persona, decide di attaccare: va sui social con un video e sciorina una serie di imprecisioni (eufemisticamente parlando…) che intanto raccontano la versione della maggioranza.

Si dà il via ad una batteria di fuoco che cannoneggia la Magistratura: se ne dicono di tutti i colori. Che Li Gotti sarebbe di sinistra, mentre ha militato almeno fino a metà degli anni Settanta nel MSI-DN, per passare poi ad AN. Che è sempre responsabilità dei giudici comunisti o genericamente di sinistra, ma il procuratore capo di Roma appartiene alla corrente più di destra della Magistratura e, quindi, non è ascrivibile a quell’elenco dell’ossessione contro la giustizia democraticamente intesa dalla Costituzione che viene tacciato di essere filo-rosso. Non c’è nulla del breve discorsetto di Giorgia Meloni che abbia una qualche attinenza con la realtà completa e complessiva dei fatti.

Pura propaganda. Il governo pasticcia con Almasry, improvvisa e poi, per uscirne in qualche modo, si inventa un avviso di garanzia che non esiste e una serie di altre circostanze altrettanto eteree. Ma ha la furbizia di mettere sulla difensiva le opposizioni e i giudici. Questi ultimi non possono intervenire nel patetico dibattito che si è costretti a vivere; le altre, invece, si fanno in qualche maniera sentire e, lungi dal voler aprire una stagione aventiniana, sono persino accusate di “paralizzare” i lavori del Parlamento. Anche in questo frangente, è il rinvio volontario degli interventi dei ministri davanti alle Camere a impedire alle stesse di poter lavorare.

Caso mai ve ne fosse bisogno, ancora una volta una vicenda internazionale, con ripercussioni interne piuttosto forti, denota come abbia in considerazione questo governo la tenuta democratica della Repubblica, la preservazione di tutte le sue istituzioni: la Magistratura trattata dalla sorella della Presidente del Consiglio (che è anche responsabile organizzazione di Fratelli d’Italia) con queste parole: «Perché in un’Italia così non c’è più spazio per la meschinità. E perché, per alcuni, dovessero anche rimanere solo macerie, l’importante è continuare a perpetuare la loro fetta di potere».

Il Parlamento silenziato e costretto all’inazione. Rimane soltanto il governo a parlare, corroborato dagli esponenti della maggioranza da cui nessun rilievo critico sulla questione può riscontrarsi: solo elogi per la Presidente del Consiglio, per i ministri e la conferma della linea scelta col video dato in pasto al feroce pubblico dei social. C’è in questa concezione dell’esclusività del potere esecutivo una alterazione profonda del dettato Costituzionale che, nelle controriforme sull’autonomia differenziata e sul premierato, trova la sua espressione più evidente: nel momento in cui si dibattono questioni di un certo rilievo, nessuno deve dare troppa noia al governo. Non si critica, non si attacca, non si disturba il manovratore.

Pare chiarissimo che qui la problematica è tutta e solo politica. Non c’è nessun attacco da parte dei giudici (peraltro di destra) alla destra di governo. C’è, di contro, una continua stigmatizzazione del lavoro dei magistrati, dell’indipendenza loro rispetto agli altri poteri dello Stato, delle prerogative assegnate dalla Costituzione di fare del giudice un elemento cardine del processo democratico soggetto esclusivamente alla Legge. Ora, la riforma di Nordio qualche dubbio (si colga anche qui un po’ eufemistica ironia) lo lasciava sull’indipendenza totale della Magistratura dal potere politico. O vogliamo dire che la destra, a far data dal primissimo afflato berlusconiano, è sinonimo di rispetto dei giudici tanto inquirenti quanto giudicanti?

Si può negare allora anche la luce del sole. Si può dire e fare tutto se la verità diventa così esile e impercettibile da essere presa in giro ad ogni giro di frase. Ma se siamo obiettivi, pur nella parzialità delle nostre singole opinioni, non possiamo negare che non è la sinistra ad avere un rapporto problematico con la Magistratura (che non ha mai risparmiato – e giustamente – procedimenti contro anche altissimi esponenti della stessa, tanto nei periodi di governo quanto in quelli di opposizione), ma lo è sempre e soltanto la destra. Perché il potere giudiziario, così come previsto dalla Carta del 1948, ha una terzietà che non è ammissibile dalla cultura illiberale di una certa destra italiana.

Una destra che è erede del MSI e che ha per il diritto lusinghe soltanto quando parla la lingua dei poteri speciali, della repressione del dissenso, della Legge e dell’Ordine ad ogni costo, sotto l’egida – naturalmente – del governo. C’è una più che lapalissiana afferenza con i piani di “rinascita democratica” piduisti, con una nemmeno tanto latente eversione, tutt’altro che strisciante, che ha costretto alla vigilanza repubblicana comunisti e socialisti, ma anche una parte del mondo democristiano e liberale, per lungo, lungo tempo nella cosiddetta “prima repubblica“.

La vicenda Almasry torna utile soltanto se permette di avere ancora più consapevolezza del ruolo eversivo di questa maggioranza nei confronti del regime democratico, repubblicano, antifascista e laico. Una destra di questa fatta è strutturalmente a-democratica, incapace di costituzionalizzarsi davvero, impossibilitata in tutte le sue componenti ad abbracciare l’antifascismo come religione civile del Paese, tutt’altro che laica nell’interpretazione civile e civica delle norme. Ad iniziare dai diritti, piuttosto che dai doveri. Dovere del governo è rispettare lo Stato nella sua pienezza e, quindi, proteggere la Repubblica come sinonimo di popolo, di comunità, di nazione.

Ma la destra meloniana vede solo una patria che è neonazionalismo esasperato in un’epoca in cui la rivincita delle destre, a livello globale, è la reazione antisociale di vaste masse sedotte da ricette semplici e dirette, piuttosto che da una analisi circostanziata dei problemi concreti che attanagliano il mondo intero, l’Europa sempre più inconsistente e impotente (di fronte anche ad una Germania in cui l’AfD plaude alla CDU-CSU che approva politiche anti-migranti degne della negazione del diritto fondamentale di asilo), nonché, quindi, l’Italia. Non basta indignarsi. Occorre riunire un ampio fronte democratico, progressista e antiautoritario per salvare le fondamenta della Repubblica.

E bisogna farlo anzitempo, prima di ora. La necessità è oltremodo impellente. Non c’è un secondo da perdere, perché la conversione dello Stato democratico in Stato di polizia, di governo e di repressione del dissenso è davvero dietro l’angolo o, se si preferisce, proprio davanti a noi. Reagire a questa sovversione moderna delle classi dirigenti è compito non solo della sinistra, ma di ogni forza politica, sindacale, cultura e di massa che abbia a cuore la difesa dei diritti umani, di quelli sociali e di quelli di ogni singolo cittadino. Senza distinzione alcuna.

MARCO SFERINI

30 gennaio 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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