C’è chi, a suo tempo, ha mostrato un cappio dagli scranni della Camera dei Deputati come iconica immagine del giustizialismo che si reclamava nei confronti della vecchia classe dirigente in piena rivoluzione tangentopolizia; c’è chi ha tirato fuori, dai banchi del Senato della Repubblica, un pacchetto, lo ha aperto e ha iniziato a mangiare fette di mortadella per irrridere la caduta del governo Prodi nel 2008.
E ci sono tanti altri episodi che sono, purtroppo, rimasti nella memoria parlamentare di una Italia che è, via via, scivolata dal vecchio rispetto del galateo istituzionale al clima dei peggiori bar di Caracas.
L’impoverimento del linguaggio politico e il deterioramento dei comportamenti consoni alle istituzioni, così come a noi semplici cittadini, è dovuto ad una convergenza di fattori che sono divenuti dirimenti per la riproposizione, a cento anni di distanza, di modelli istituzionali che prendono a pretesto la democrazia, la deformano e la conformano ad una idea piuttosto conservatrice e identitaria tanto della nazione quanto della patria.
La mutazione generazionale di una cultura di massa è possibile quando, almeno per il tempo necessario alla sua formazione, quindi diciamo nel corso di un ventennio, si creano i presupposti per una “contro-narrazione“.
Oggi della cosiddetta “prima repubblica” (che sarebbe sempre meglio definire come “prima fase” della vita dell’Italia post-bellica, democratica ed antifascista) si parla come di un tempo antecedente ad una ennesima rivoluzione socio-antropologico-politica che, dopo quella mussolinana degli anni ’20 del Novecento, è ritrovabile nel profondo solco tracciato dal berlusconismo tra due popoli italiani.
Non sempre nettamente separabili fra loro per nettezza, distinzione e cristallinità di posizioni, ma pur sempre riconoscibili per antiteticità: circa la metà dei cittadini col centrodestra, circa l’altra metà col centro e la sinistra.
È una semplificazione necessaria per capire che, a monte c’è l’antica, storica divisione tra ammiratori del fascismo, post e neofascisti, liberali di destra, monarchici, integralisti cattolici, riformisti conservatori al tempo stesso, proprio come si chiama il gruppo europeo in cui si trovano i deputati di Fratelli d’Italia, e antifascisti, democratici, socialisti, comunisti, libertari, ecologisti, laici e religiosi, atei, agnostici e credenti, pluralisti, antirazzisti, e tutti coloro che avversano l’accanimento contro i diritti sociali, civili, umani.
Da una parte quelli per cui le differenze sono stigmi, dall’altra quelli come noi per cui invece sono valori, specificità dalla cui interazione si può comprendere meglio la più grande essenza umana (e disumana anche).
Molti anni fa, quando ancora esistevano il PDS, i Verdi, la Rete e Rifondazione Comunista nella sua prima adolescenza politica, Mauro Paissan, giornalista e deputato ambientalista, venne aggredito nell’emiciclo di Montecitorio pressapoco con le stesse dinamiche con cui i parlamentari leghisti e fratellitalioti hanno dato l’assalto al Cinquestelle Donno.
Allora si parlava della RAI del 1994, all’inizio della resistibile ascesa del Cavaliere nero di Arcore. Bastarono poche parole sull’occupazione berlusconiana della televisione di Stato da parte delle destre per far scattare la reazione rabbiosa degli onorevoli di Alleanza Nazionale.
Trent’anni dopo si ripetono scene che, francamente, non si vedevano per fortuna da molto tempo in Parlamento. Le Camere sono lì, fatte apposta per discutere, polemizzare anche aspramente. Pure per mandarsi a quel paese. Ma sempre nel rispetto reciproco dei ruoli.
Ciò che si è visto l’altro giorno nelle immagini riportate da tutte le televisioni e da Internet, è un salto di qualità negativo che rimette in circolo il veleno muscolare della forza come sovraordinato rispetto a quello della dialettica anche mascellarmente protesa all’urlo e all’invettiva.
Ciò che si è potuto vedere è l’intangibilità delle figure governative. Chi tenta di avvicinarsi al governo con un tricolore italiano per contestarne la controriforma dell’autonomia differenziata, è come se facesse opera di lesa maestà e accorrono i fedeli servitori a fare da scudo al ministro che rifiuta la bandiera nazionale.
I giornali hanno titolato oggi, salvo qualche rara eccezione, scrivendo della “rissa” scoppiata alla Camera dei Deputati. Non è stata una rissa all’inizio. Per qualche manciata di secondi, forse per mezzo minuti, è stata una protesta simbolica contro il governo.
Poi si è trasformata in una aggressione da parte di quelli che tutto sembravano tranne che dei parlamentari: energumeni che si sono avventati contro Donno per malmenarlo e, in effetti, pare che questo sia avvenuto. Qualcuno gli ha rifilato un pugno sullo sterno da farlo piegare in due e cadere a terra. Sembra che altri gli abbiano sferrato dei calci.
La presidenza dell’aula, alla fine, sposa la narrazione giornalistica che va per la maggiore, ossia nella direzione della protezione della maggioranza di governo e del governo stesso: affibbia due settimane di sospensione ad Igor Iezzi della Lega, che più di tutti si è lanciato contro il parlamentare Cinquestelle per tentare di assestargli qualche pugno in testa, e addirittura quattro giorni di squalifica dai lavori anche per Donno stesso.
Cercavi giustizia e incontrasti la destra, per parafrasare De Gregori. Se almeno, però, si vuole ristabilire la verità dei fatti, guardando e riguardando quelle immagini, bisognerebbe ammettere che non è da oggi che tutto questo accade.
Nelle televisioni è pieno, lì sì, di vere e proprie risse, di insulti a tutto spiano. Quando si trova un programma in cui si ragiona pacatamente e si prova a capire le ragioni dell’altro o, anche, a contestarle con rispetto, pare di aver trovato il quadrifoglio in mezzo a tantissimi trifogli. Una rarità.
E tutto questo accade nel centenario dalla morte di Giacomo Matteotti ma, se vogliamo, anche da altri episodi ormai lontani nel tempo che videro protagonisti cattolici, socialisti, comunisti ed anarchici ai tempi del primo fascismo.
È il 16 novembre 1922 quando Benito Mussolini fa il famoso “discorso del bivacco” alla Camera dove si sono viste immagini raccapriccianti. Il 30 ottobre ha ottenuto dal re Vittorio Emanuele III l’incarico di formare il nuovo governo e si rivolge al Parlamento anche con queste parole:
«Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo, ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto».
Non ci sarà bisogno di arrivare a tanto. Di lì a poco la democrazia sarà archiviata e il Partito Nazionale Fascista sarà l’ombra delle istituzioni che saranno adeguate al nuovo regime dittatoriale.
Filippo Turati risponderà a Mussolini con una grande lucidità di sintesi di ciò che stava avvenendo e che i fascisti volevano far sembrare quasi una concessione da loro data alla democrazia liberale che, invece, stava velocemente spegnendosi attorcigliata su sé stessa in mezzo ad una crisi sociale che pareva poter essere risolta solo con l’intervento dell'”uomo forte“:
«La Camera non è chiamata a discutere e a deliberare la fiducia; è chiamata a darla; e, se non la dà, il Governo se la prende. È insomma la marcia su Roma, che per voi è cagione di onore, la quale prosegue, in redingote inappuntabile, dentro il Parlamento».
Uno degli elementi cardini della rivoluzione berlusconiana è proprio lo sdoganamento della destra estrema: quando il Cavaliere nero di Arcore viene chiamato dai giornalisti ad esprimersi sulle imminenti elezioni comunali di Roma, non esista un attimo e fa quello che oggi verrebbe chiamato un “endorsement“.
Lo esprime per Gianfranco Fini. È sul finire di quel 1993 che prende il via il compattamento delle forze disperse dalla crisi verticale dei grandi partiti di massa: la diaspora democristiana e quella craxiana vengono intercettate da Berlusconi che agisce da federatore. Soprattutto con quella che si rivelerà l’anima più instabile del trittico futuro: la Lega Nord di Umberto Bossi.
Da allora la destra è uscita dal minoritarismo missino senza però fare mai del tutto i conti con il suo passato che la pone in netto contrasto con l’anima resistente, antifascista e democratica della Repubblica Italiana.
Qui sta il nocciolo del problema: i comunisti che non hanno più voluto dirsi ed essere tali si sono trasformati prima in socialdemocratici ed hanno abbandonato simboli ed anche in parte la storia del grande movimento internazionale proletario, condannando lo stalinismo ed ogni devianza autoritaria del socialismo irreale dell’Est europeo.
Quelli come noi che, invece, hanno ritenuto che esistessero ancora tutti i presupposti per una lotta contro il capitalismo senza alcun se e senza alcun ma, non hanno avuto alcun problema a dire chiaramente che il riferimento erano Gramsci e Berlinguer, non Stalin e Pol Pot. Perché i comunisti hanno preso parte, fin dai primordi della nascita del movimento fascista, all’organizzazione clandestina della Resistenza.
Lo hanno fatto insieme ai socialisti, ai repubblicani, ai liberali, persino con i cattolici e i monarchici nella fase ultima del plumbeo e tetro regime repubblichino, fantoccio dei nazisti, quando, con Palmiro Togliatti, hanno dato vita alla “Svolta di Salerno” e creato le premesse per un antifascismo istituzionalizzato, di lotta e di governo insieme.
Quando il vicesegretario della Lega Crippa afferma che è più decoroso “fare la decima” in aula, mimando la X della Decima MAS, piuttosto che cantare “Bella ciao“, non solo ammette la sua (si spera) voluta ignoranza cercando di farne un canto esclusivamente comunista, mentre fu uno dei tanti motivi con cui migliaia di giovani andavano a combattere e morire per la libertà dell’Italia dalla criminale oppressione di due regimi totalitari, ma riafferma il solco profondo tra due popoli italiani.
Personaggi che oggi ricoprono alte cariche dello Stato e provengono dalla storia politico-squadristica del Movimento Sociale Italiano, non hanno fatto e non faranno mai i conti con il passato, perché, in forme e modi differenti, per loro è ancora un presente che si può riattualizzare: magari con il premierato, con il dare al capo del governo i poteri necessari per fare in modo che l’equilibrio tra parlamento, esecutivo e magistratura si rompa a favore del secondo.
Il tutto – si intende – mantenendo formalmente il rispetto per le istituzioni, dicendosi “patrioti” e, di pari passo, conducendo in porto un’arlecchinizzazione del Paese diviso in venti regioni di cui la metà benestanti e l’altra metà povere.
Le prime offriranno ai loro cittadini il meglio che potranno vendere tramite le mille privatizzazioni dei servizi oggi pubblici, le seconde distribuiranno ulteriore miseria, deficit e condizioni di sopravvivenza ad un Sud in cui la “questione meridionale” si ripropone così con prepotente e intempestiva solerzia.
Occorre unire quella maggioranza di popolazione che non è disposta a farsi portare via le conquiste di una storia che ha dato all’Italia la libertà e la democrazia, la possibilità oggi – paradossale eppure tale – di avere al governo i più diretti eredi dell’antitesi della democrazia stessa.
Non è il momento per le tirate sulle ragioni profonde che hanno prodotto la crisi economica e sociale che hanno dato vita a questo stato di cose inquietante. Se caso mai qualcuno a sinistra non se ne fosse accorto, a far star male lavoratori, precari, pensionati, studenti e tutti coloro che vivono del loro lavoro alle dipendenze di altri, si ottiene questo: il regalarne il consenso a forze politiche fanno l’esatto opposto degli interessi sociali e pubblici.
Ora è il momento di porre un argine a questa destra che intende sovvertire la Repubblica, che vuole fare del Parlamento una depandance del potere governativo e che ha già occupato gran parte dei posti istituzionali, di quelli dell’informazione e ha pericolose ramificazioni estere con movimenti e partiti che si richiamano direttamente ai peggiori istinti di odio, discriminazione, razzismo ed omofobia.
Qui non si tratta di discutere di alleanze politiche.
Ma, nell’immediatezza, della formazione di un vero e proprio fronte democratico e popolare per la salvezza della Repubblica, per la tutela della Costituzione e dei diritti di tutte e di tutti. La violenza cui si è assistito in Parlamento è del tutto simile a quelle che esponenti della maggioranza riversano su consiglieri comunali dell’opposizione in diversi comuni d’Italia.
Sindacati, partiti della sinistra e del centro, parlamentari o extraparlamentari, comitati, associazioni culturali, solidali, Ong, reti studentesche, l’ANPI, l’ARCI, l’ANED, il mondo del volontariato e della condivisione delle esperienze possono trovare un denominatore comune nel nome della difesa della democrazia e, quindi, anche di un po’ di giustizia civile e sociale.
La deriva va fermata. Serve un segnale importante, unitario, di massa. Non possiamo essere schizzinosi oggi. Torneremo ad esserlo quando il pericolo sarà passato. Ed al momento siamo nel pieno della tempesta: la guerra lavora contro ogni proposito di stabilizzazione delle coscienze su un livello di critica ragionevole.
Se i referendum della CGIL contro il Jobs act e il precariato vanno in questa direzione, firmiamoli! Archiviamo per un attimo le critiche del passato che possiamo avere su questo o quel soggetto, su questo o quel problema affrontato in un modo che non ci è piaciuto e non ha avuto il nostro gradimento.
Pensiamo a tutto quello che possiamo concretamente fare per sbarrare la strada al dilagare dell’aggressività di un neofascismo che fa finta di essere istituzionalizzabile, democratizzabile e pienamente compreso nell’arco costituzionale che, invece, un tempo escludeva ovviamente il MSI.
Tutto ciò che ci divide, come antifascisti, deve essere messo temporaneamente da parte. Tutto ciò che ci unisce contro queste destre deve essere invece valorizzato e messo a frutto. Ciò non significa che dobbiamo sospendere le nostre differenze politiche nel nome dell’emergenza antidemocratica attuale. Significa che bisogna distinguere: il contrasto dei piani delle destre contro le istituzioni repubblicane e la trasformazione dell’odierna opposizione in maggioranza di governo domani.
Difficile pensare che questa possa andare da Rifondazione Comunista ai centristi. L’Ulivo e l’Unione sarebbe meglio non ripeterle come esperienze. I carrozzoni della disperazione penalizzerebbero un po’ tutti e avvantaggerebbero solo i liberisti che vogliono una sinistra ammansita alle determinazioni mercatiste e liberiste.
Ma, intanto, la lotta che possiamo fare per arginare queste destre, facciamola. Fin dove è fattibile camminare insieme, camminiamo. E con passo piuttosto lesto, perché i mutamenti antisociali, incivili e incostituzionali fanno larghe falcate in questi tempi di epocale crisi nazionale, europea e mondiale.
MARCO SFERINI
14 giugno 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria