Su quale cavallo politico punterà la classe dei padroni (pardon… “imprenditori”) questa volta? La campagna elettorale entra nella sua fase finale, ha fatto il giro di boa e ora ci attendono quindi giorni in cui le varie forze in campo tenteranno ogni carta per convincere i meno propensi a concedere il proprio voto a Tizio piuttosto che a Caio. I giochi per i padroni sono già fatti: loro scelgono sempre in anticipo a chi affidarsi per tutelare al meglio la rendita dei profitti.
Del resto, a cosa servirebbero mai gli incontri alla City di Londra o quelli ancora precedenti cui abbiamo assistito per “rassicurare” gli investitori stranieri e dire loro che, qualunque possa essere lo scenario, non si dovranno allarmare, preoccupare in alcun modo: potranno sempre portare i loro risparmi in Italia, impiegarli per creare nuovi luoghi di sfruttamento visto che la legislazione in materia di lavoro è quel modernissimo “jobs act” che consente di spezzettare le contrattualità, di agevolare la fiscalità delle imprese e quindi di garantire col minimo investimento il massimo del profitto.
Avendo sentito che qualcuno lo vuole abolire, e tralasciando forze come Potere al Popolo! che non hanno alcuna intenzione di ascoltare le esigenze del padronato, la borghesia imprenditoriale ha provato a capire per tempo chi avesse due qualità essenziali per potersi garantire l’appoggio dei “poteri forti”: la capacità di raggiungere un consenso tale da arrivare a Palazzo Chigi senza troppi compromessi e quella che viene definita l'”esperienza necessaria” per poter governare. Governare, in questo senso, significa sempre e soltanto fare gli interessi della classe dominante.
Chi ha queste caratteristiche per carattere ereditario potrebbe essere anzitutto il Partito democratico con la sua micro coalizione di listarelle messe in piedi alla bella e meglio e che proprio in questi giorni ricevono il benestare di importanti figure nazionali e internazionali della politica italiana che giocano ruoli differenti in una strategia compulsiva tesa a ridimensionare un poco il ruolo di Renzi e a dare più forza ad una invisibile struttura di centrosinistra.
Così si può interpretare la mossa di Romano Prodi verso la lista socialista-verde e laica e, al contempo, la benedizione data al lavoro di Paolo Gentiloni. Il messaggio del fondatore del vecchio Ulivo è chiaro: è utile sostenere chi porta avanti i vecchi valori del vecchio centrosinistra e un Gentiloni che li interpreta molto meglio di Renzi.
Del resto, le caratterialità non solo politiche del precedente e dell’attuale presidente del Consiglio sono palesemente antitetiche, molto diverse: più eccentrico e frontale Renzi, più conciliante e disponibile al dialogo Gentiloni. Tra democristiani, nonostante tutto, ci si intende ancora molto bene.
Quel tratto riconoscibile del “senso dello Stato” (e di ciò che è meglio per garantire la stabilità economica del padronato) tipico della vecchia Balena bianca, se proprio lo si deve ricercare nella coalizione “Biancaneve”, lo si può trovare per l’appunto in una lista anonima come quella di “Insieme” e non certo nell’iperliberismo europeista della Bonino o nel tentativo di sopravvivenza del popolarismo di destra operato dalla Lorenzin dopo la fine dell’esperienza dell’NCD.
La grande macchina del PD sta perdendo mordente, rischia di posizionarsi molto indietro rispetto a quel requisito necessario per poter accedere a Palazzo Chigi, ed allora è naturale che i padroni e gli investitori abbiano ascoltato anche la novità politica della cosiddetta “antipolitica”.
Ciò che si dava per escluso ancora soltanto sei mesi fa, oggi è quasi invece dato per scontato: il neotrasformismo di una politica turbolenta, instabile e altamente incapace di essere un punto di riferimento certo per lungo tempo, come accadeva nel vecchio schema del Pentapartito, per la classe dei padroni e dei finanzieri non è di per sé un fatto che riguarda questa o quella coalizione, ma è divenuto un modo d’essere della politica italiana.
Un modo nato e cresciuto dentro una instabilità economica che ha sparigliato le carte e che ha messo davanti a tanti fatti compiuti un sistema di alleanze creato per reggere piccoli urti e gestire fasi di ricezione di ordini da Bruxelles, non certo per essere l’arbitro di una nuova serie di riforme strutturali in stile anni ’70 e ’80.
Per questo Confindustria glissa, non si rivolge ufficialmente né alla destre e nemmeno alla sinistra (ormai anche i padroni sono costretti a definire sinistra il PD…), e tra tagli alla fiscalità e nuovi contratti sempre più precari cerca chi possa avvicinarsi a sostenere il rischio di una promessa ben più utopica rispetto a quella berlusconiana d’un tempo: creare 1.800.000 posti di lavoro a fronte di un investimento di circa 250 milardi di euro. Un “piano quinquennale” non di economia parificata, un rischio di impresa che poi tanto rischio non deve essere se lo propongono direttamente lorsignori. E’ il minimo che possono mettere per ottenere il massimo da un liberismo sfrenato che impedirà ancora una volta alle giovani generazioni di avere contratti a tempo determinato, salari decenti e, quindi, una programmazione del futuro.
Gentiloni ha promesso una “nuova stagione per l’Italia”, Renzi ha parlato di una “strategia seria e da condividere”, Di Maio ha proposto il superamento della dicotomia tra Stato e mercato (la grigia trasversalità grillina non si smentisce mai), Berlusconi ha esposto le sue proposte essenzialmente sulla fiscalità contenibile e persino i sindacati, con Anna Maria Furlan, hanno trovato “molte affinità con la nostra visione”.
Non c’è speranza, dunque, di trovare in questo variegato (eppure uniforme) mondo del progresso padronale un ritorno a politiche anche minimamente riformiste: chi più, chi meno, tutti puntano alla conservazione del sistema liberista dentro ad un capitalismo in crisi che, proprio per questo, gestisce le sue instabilità con la brutale forza del sistema finanziario.
Anche se non vi va di ammetterlo, di trovarvi nella situazione d’essere sfruttati e quindi sulla soglia magari di una povertà che gli altri vorrebbero fosse motivo di vergogna per voi, è bene che di questo si prenda coscienza per non cadere nelle trappole di forze politiche che si mostrano “amiche del popolo” e che invece sono amiche solo del mercato, del capitalismo e della grande finanza.
C’è una sola possibilità per ricostruire un fronte di sinistra di alternativa, comunista, libertario. Non è una scelta, è una possibilità concreta: dipende da tutte e tutti noi. Si chiama Potere al Popolo! e il 4 marzo va sostenuta in massa da tutti coloro che non sono padroni di niente, finanzieri per nessuno.
MARCO SFERINI
18 febbraio 2018
foto tratta da Pixabay