Stravolgimenti economici e politici sull’onda lunga del Covid-19

Slavoj Žižek, sull’ultimo numero di “Internazionale” ragiona sulle conseguenze sociali ed economiche tanto nella prima fase dell’espansione del virus in Asia e in Europa quanto in questa estate che...

I mutamenti sociali sono legati a quelli economici e finanziari: la pandemia ci ha costretto a sbattere il muso violentemente contro la caparbietà di una testardaggine dei fatti che risiede tutta nei numeri del crollo di un prodotto interno lordo delle singole nazioni che, se osservato nella sua globalità, spaventa enormemente il Fondo Monetario Internazionale: secondo le stime fatte dall’organismo di controllo delle crisi del capitalismo, l’Unione Europea nel suo complesso finirà con il registrare una perdita del 9,3% sulla ricchezza prodotta rispetto all’anno precedente.

Una percentuale che riassume il disagio dei singoli Stati della UE e che sintetizza i dati nazionali ma che rischia di diventare oscillante e variabile a seconda della risposta che proprio i singoli paesi europei riusciranno a dare all’impatto del coronavirus spalmato su tempi che, come è del tutto evidente, non si preannunciano affatto brevi. Proprio il FMI, a questo proposito, fa una previsione di inizio di ripresa non nel 2021 ma bensì nel 2022, ipotecando il prossimo anno a fattori determinanti come la comparsa di un vaccino o di cure che rappresentino il punto di ripristino di una “normalità” che permetta al capitalismo continentale (e alla concorrenza fra i poli del mercato dei vari nuovi grandi assetti della concentrazione della proprietà dei mezzi di produzione) di tornare ad esprimere tutta la sua ineguaglianza pienamente.

Azzardando un poco quando si riferisce alla critica dell’equivalenza (mostrata nei cartelli di alcuni manifestanti americani) “distanziamento sociale” uguale “comunismo“,

Attenzione però a non cadere nell’errore che vuole il virus altamente “democratico“, visto che colpisce tutte e tutti allo stesso modo. Ciò è senz’altro vero nel momento in cui il Covid-19 entra in contatto con ognuno di noi. Ma dal momento immediatamente successivo, ossia quando veniamo curati, le differenze sociali e di classe iniziano a farsi sentire e anche macroscopicamente.

Non solo perché vi è una enorme sproporzione tra la qualità delle cure sanitarie che si possono ricevere nei paesi a capitalismo a pieno regime liberista e in quelli dove invece si vive in un limbo colonialista, in un terzo o quarto mondo che un poco avevamo obliato in questi decenni, tutti presi (e più che giustamente) dalle guerre imperialiste americane per il petrolio, gli oleodotti e la ridefinizione geopolitica della potenza della Repubblica stellata, nonché delle contro-risposte di Russia, Cina, Iran e India.

Ma soprattutto perché, l’ineguale sviluppo, che aumenta sul pianeta a causa dello sfruttamento di una sua parte nei confronti della stragrande maggioranza dell’altra, si esprime sempre più ferocemente nell’impossibilità di dare vita ad una forma di stato-sociale che tuteli miliardi di salariati, di lavoratori, di disoccupati e precari; legioni di sfruttati moderni che crescono esponenzialmente e che sono il principale fenomeno impossibile da occultare attraverso cui può sommarsi crisi a crisi.

Alla crisi sanitaria, all’emergenza di salute pubblica si affianca un neo-pauperismo che determina la contrazione della domanda in tempi così stretti e veloci da impedire al mercato di riconvertirsi ed adattarsi come sovente accade nelle crisi cicliche del capitale.

Tutti parametri di protezione delle grandi accumulazioni da capitale e tutti i protezionismi finanziari, messi in atto con trattati internazionali come il TTIP, da un lato rischiano di saltare come misure di contenimento degli attacchi sociali al capitale, dall’altro possono anche venire rafforzati in una fase però successiva a quella attuale: persino la rigida politica liberista della Banca Centrale Europea ha dovuto mutare il passo, elaborando misure di concessioni di fondi agli Stati più colpiti dal coronavirus su cui però è tutto aperto il contenzioso circa le modalità di elargizione: prestiti e sovvenzioni, quote di interessi da pagare sui prestiti inclusi nel MES e quote di sovvenzioni praticamente a fondo perso.

Se, infatti, fino allo scoppio della pandemia, l’economia europea (e non solo) aveva creato le condizioni per superare vecchie forme cosiddette “assistenzialiste” nei confronti delle fasce sociali più deboli delle popolazioni, frutto di secoli di sviluppo storico civile (il passaggio dall’Ancien Regime alla Rivoluzione francese) fino ai grandi cambiamenti sociali novecenteschi (la Rivoluzione d’Ottobre, la messa stessa in discussione del modello economico dominante per tutto il “secolo breve” con sommosse operaie, giovanili e studentesche, legando libertà civili a libertà economiche), con l’irruzione del Covid-19 sulla scena mondiale tutta una serie di inanellate certezze granitiche sono venute meno.

Non va scordato che alle tematiche prettamente economiche sono legate quelle di sostenibilità ambientale e viceversa. Così come è altrettanto evidente che ogni singolo comportamento, anche alimentare, che mettiamo in pratica ogni giorno fa parte di una approvazione o di una disapprovazione del modello di sopravvivenza (e di vita) che assumiamo come “naturale” e che invece, progressivamente, ha portato quasi 8 miliardi di individui a confrontarsi con enormi catastrofi naturali, contro la natura stessa, causate da un sistema economico che tutto sfrutta per garantire il perdurare del privilegio della proprietà privata e di grandi capitali di pochissime centinaia di individui sulla terra.

Esplodono così non nuove proteste, ma nuove espressioni di antiche contrapposizioni sociali e civili e le tensioni aumentano con l’aumentare della povertà, delle repressioni che i sistemi polizieschi di Stato mettono in pratica a guardia dello stato di cose presente.

Dal movimento mondiale dei “Fridays for future” fino al “Black lives matter“, passando per l’enormità del fenomeno migratorio degli ultimi anni, costeggiando i tentativi sovranisti di comprimere tutti questi straordinari rigurgiti di rivolta contro una serie di ingiustizie che non riescono ad essere legate fra loro da una chiara visione dell’origine unica dei soprusi, del dilagare del disagio sociale, il fermento mondiale impone alla dirigenza sovranazionale adibita al controllo monetario, alla stabilità dell’economia (FMI, Banca Mondiale, BCE), di scegliere fra due opzioni.

La prima, fare una serie di concessioni ai singoli Stati attendendo la fine dell’emergenza sanitaria e recuperare poi in seguito i profitti momentaneamente “sacrificati“. La seconda, ripensare, sempre all’interno – si intende – del sistema capitalistico, i rapporti di scambio, le concorrenze che si vengono a creare, i dazi imposti, le politiche fiscali e tutta una serie di opzioni che suggeriscano una prevenzione di prossime crisi, al fine di affrontarle senza creare i presupposti di nuove pericolose tensioni sociali per l’ordine antisociale dominante.

E’ molto difficile potersi prefigurare ora quale delle due ipotesi sia la meno impattante su miliardi di moderni proletari ancora più impoveriti dalla crisi del Covid-19. Elemosina o piano accuratamente studiato per ristrutturare l’edificio, coprire la crepe e renderlo ancora più solido nel momento in cui a farlo traballare venisse non il conflitto sociale come primo naturale nemico, bensì un piccolo virus che si diffonde sul globo terracqueo?

La classe dei padroni e dei finanzieri ha ben capito che le lotte civili oggi non sono soltanto più legate al bisogno dei diritti liberali di parola, di espressione, di movimento, di piena espressione della propria persona in quanto tale: la rivolta dei neri d’America, che si scrollano da addosso il ginocchio del poliziotto che li soffoca, è una rivolta sociale che chiede di andare oltre la semplice concessione delle libertà formali.

E’ una rivolta che chiede conto di trattamenti non soltanto di polizia: vuole l’uguaglianza civile ma pretende una uguaglianza sociale, sostanziale, quando fa riferimento a tutta una serie di ingiustizie che riguardano i trattamenti sanitari, le discriminazioni di genere, di sesso, di censo. Perché dove si nasce e si cresce, benché non sia più stabilito in nessuna costituzione, fa la differenza nel momento in cui si stabilisce un confronto fra quartieri poveri e quartieri ricchi, tra zone in espansione e in zone depresse del pianeta.

Compito di un movimento anticapitalista mondiale dovrebbe essere quello di mostrare a queste milioni di coscienze il punto su cui tutto verte, muove, si torce e si contorce: lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dell’uomo sugli altri esseri viventi e sulla natura.

L’unità delle lotte per un lavoro sicuro e stabile, per un ambiente sano e vivibile, per una piena espressione di qualunque diversità, unicità e differenza, questa unità porta un nome soltanto: anticapitalismo. Comunismo di nuova generazione, di un nuovo millennio. Il nome richiamerà anche il passato, potrà anche essere legato ad involuzioni stataliste del pensiero e della pratica libertaria di un movimento che è prima di ogni altra cosa libertà di ciascuno nella realizzazione della libertà universale.

E’ probabile che non solo il capitale, il padronato e il mondo finanziario siano sconvolti e costretti a ripensarsi nella fase dell’attuale pandemia. E’ probabile che anche il movimento anticapitalista debba affrontare un ammodernamento delle sue analisi e, soprattutto, delle sue relazioni tra rappresentanza politica e fenomeno sociale di riferimento.

Abbiamo sentito parlare per mesi di “distanziamento sociale“: un concetto molto lontano dal rendere compiutamente il significato che dovrebbe esprimere la cautela di ciascuno nel proteggere la salute di tutti col proprio comportamento. Più corretto sarebbe stato chiamare la diversificazione della nostra vita, nei due mesi di chiusura totale ed anche in questa fase estiva, “distanziamento personale“: tra persone, ma non tra socialità e socialità. E’ vero che distanziarsi implica il diradamento del processo sociale, che per sua natura è e rimane aggregante, ma è altresì vero che l’interesse comune rimane tale e che solo un esasperato individualismo genera un vero e proprio “distanziamento sociale” che prescinde da qualunque virus, da qualunque pandemia.

La vera “distanza sociale” non è figlia del coronavirus e dell’emergenza sanitaria ma è semmai figlia di quella “normalità“, così tanto richiamata e ricercata dai grandi mezzi di comunicazione di massa, che ci vede ogni giorno tanto lontani gli uni dagli altri, pur appartenendo alla stessa classe sociale, allo stesso tipo di sfruttamento delle nostre menti e delle nostre braccia.

MARCO SFERINI

14 luglio 2020

Foto di Harvey Boyd da Pixabay

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