Il contesto è quello di un mondo in completo mutamento. L’Impero romano dei Cesari svetoniani, della accurata trascrizione storiografica tacitiana è nel trapassato remoto e, tuttavia, tante sue istituzioni rimangono, solcano i decenni, i secoli.
Occidente e Oriente ormai si guardano come due entità distinte eppure ancora legate dalle tradizioni, dalle culture, dai commerci, dai pericoli che gli incombono addosso e che, premendo sui limes ormai defraudati della loro sentinellica importanza, si affacciano all’epoca della nuova storia.
A scuola, almeno un tempo, ci facevano studiare i “regni romano-barbarici” come fossero stati degli indegni continuatori di qualcosa che non poteva veramente essere replicato: la statualità federativa romana, la sua capacità di unire e unificare, di tenere sotto lo stesso gioco, alle stessere regole del diritto popoli talmente diversi, destinati a non incontrarsi mai se non tramite le vie dell’impero.
Tutta quella fitta rete di compenetrazione economica, politica, sociale e culturale che fece del connubio tra Senato e Popolo romano l’insegna invincibile dell’antichità, un simbolo trasposto nella nostra attualità.
Roma, quando nasce Procopio di Cesarea, nella Palestina di fine 400 d.C. e di inizio 500, è molto più lontana di quanto non fosse all’epoca di Augusto o di Tiberio. Ma pure di Traiano. L’Impero bizantino, che se ne considera erede dirette – e con qualche oggettiva ragione -, è un agglomerato di genti diversissime, che pensano in modo molto complesso, si arrovellano tanto sul tirare a campare quaotidiano quanto sulle eresie che la religione cristiana si trascina appresso.
Ci sono mille sette, deduttori di ogni tipo sulla natura di dio, del Cristo, sull’unicità della sua persona o sulla possibilità che egli sia stato un messaggero del Padre.
Nella Nuova Roma voluta da Costantino, che ora chiamasi Bisanzio, mentre si progettano guerre per la riconquista del vecchio Impero, della sua pars occidentalis, per quella che passerà alla Storia come la politica della “renovatio imperii“, la vita fiorisce grazie alle grandi rotte commerciali: la via della Seta ben presto unirà la Cina a Roma stessa, e e viceversa, mentre la marineria assumerà nemmeno troppo tardi un ruolo fondante per nuovi agglomerati di Stati, per nuove città che prenderanno il posto del vecchio mondo.
Di Procopio, al pari proprio di Svetonio, si sa pochissimo. Pare fosse figlio di un certo Stefano, una specie di funzionario imperiale di stanza a Cesarea ed a Gaza. Ed è qui, nella odierna e tristemente famosa città palestinese, che il futuro storico dell’epoca giustinianea muove i primi passi scolastici: retorica, storia, filosofia. Non si sa bene come, ma attorno al 527, dopo aver studiato anche le leggi e gli ordinamenti imperiali, diviene consigliere di uno dei generali più famosi dell’epoca, un comandante in capo dell’esercito: Belisario.
Procopio entra così a far parte di un’aristocrazia imperiale che, almeno in un primo momento, non ne modifica le umili origini e non lo trasforma in un astioso persecutore degli eventi dentro e fuori della corte bizantina. La sua vita è intensa, frenetica: partecipa alle guerre greco-gotiche dall’Africa all’Italia e, in questo modo, attinge ad una voluminosa mole di informazioni che gli saranno imprescindibili per poter scrivere la sua più grande opera storica: “Le guerre“.
In quell’opera, il probabile greco-semitico nato a Cesarea, esprime il meglio del suo metodo tucidideo: la raffinatezza della sua scrittura è pari a quella di Tacito, ma lo stile è certamente molto più ellenico, rivolto ad Oriente senza trascurare nulla di quanto accade ad Occidente.
La riconquista del territorio imperiale caduto nelle mani dei barbari, è per Giustiniano una missione di vita. Così come il riordino delle leggi in quel “Corpus iuris civilis” che passerà alla Storia come una delle riorganizzazioni del diritto più importanti e determinanti per i secoli (ed i millenni) successivi.
Ma Procopio, ad un certo punto della sua vita, viene estromesso dalla corte, quasi bandito, senz’altro scacciato. Da una traccia di elenco dei funzionari imperiali presenti a Bisanzio tra il 562 e il 563 d.C. sappiamo che – sempre d’obbligo il dubbio – probabilmente era lui uno dei prefetti citati. Fino alla fine della sua vita, dunque, avrebbe in qualche modo ricoperto ruoli sempre di alto rango e sempre in seno all’amministrazione dell’Impero.
Ma, se “Le guerre” gotica, persiana e vandalica gli hanno procurato la fama di uno tra i più attendibili e celebri storici del bizantinismo, ad interessarci qui sono quelle “Storie segrete” (è preferibile ad altre edizioni, quella di Rizzoli nella BUR, l’unica con la pregevole ed utile presenza del testo greco a fronte) in cui emerge più che la meticolosità dell’attendibilità storica, tutto un vociare di pettegolezzi e di maldicenze sul conto, in primis, di Giustiniano e della consorte Teodora, et in secundis anche contro i suoi generali: dal suo protettore Belisario al palesemente destetato Narsete.
Queste storie, chiamate anche “carte segrete“, non sono un genere nuovo nella letteratura tanto greca quanto latina. Cicerone stesso mise mano ad una serie di appunti che non avrebbero dovuto essere divulgati se non dopo la morte di coloro che ne erano gli infelicissimi protagonisti.
Tutta l’opera di Procopio, tanto quella aderente ad un metodo storico antico, ma pur sempre oggettivo e distaccato quanto basta dalle emozioni e dai pensieri personali per preservarne la purezza espressiva e la sincerità sugli accadimenti, quanto quella delle “Carte segrete“, parziale perché viziata dal disprezzo dell’autore nei confronti dei suoi narrati e del contesto in cui vivono e determinano le sorti del mondo conosciuto, pur essendo quasi all’opposto del pensiero di un Tucidide, ne condivide certi tratti narrativi.
Infatti, tutta l’opera dello storico di Cesarea si uniforma ad una condivisione tra intersezione degli avvenimenti, casualità ma anche – ecco qui la fisionomia distintiva del tucididismo – della sorte (la “τύχη” (“tuke“) che fa il paio con l’ “εὐτυχία” (in sostanza la fortuna, la “buona sorte“) di aristotelica memoria, e assume su di sé, in particolar modo ne “Le costruzioni“, che descrivono le opere architettoniche promosse da Giustiniano e che, spesso, hanno preso il suo nome in forma di nuovi agglomerati urbani, un qualche riferimento prettamente geografico (nonché geostorico e geopolitico) che ricorda la capacità descrittiva di Strabone.
Le “Storie segrete” di cui parliamo qui sono, come avrete capito, un concentrato di maldicenze e di antistoricismo che non ne fanno un mirabile capolavoro di autenticità storica. Tuttavia, sono un prezioso documento da cui si possono trarre tutta una serie di informazioni sulle relazioni interne alla corte imperiale bizantina, ai rapporti tra l’Occidente romano-barbarico e l’Oriente fieramente erede della Roma purtroppo messa al sacco e pure assediata.
Procopio, quando scrive le “Storie segrete” è ovviamente già stato estromesso dalle sue cariche, dai suoi uffici.
Si avvicina alla casta senatoriale che, al pari di lui ma per motivi diversi, ha in odio un imperatore che passerà alla Storia come uno dei più illuminati (nonostante gli episodi di crudeltà non mancassero affatto…): il restauratore, seppur per pochi decenni, di una unità imperiale che va dal Medio Oriente al sud della Spagna, dall’Italia riconquistata agli Ostrogoti e agli Alamanni, fino all’Africa dei Vandali. Un regno debolissimo quest’ultimo che si scioglierà come neve al sole davanti alle armate di Belisario.
Ma qui, nelle “storie” che non dovevano essere note alle genti prima del determinarsi di alcune scomparse terrene, si prova a disfare il mito di Giustiniano, a decostruire la narrazione di una storia panegiricheggiante, forse anche di quella propaganda imperiale che veniva diffondendosi in ogni parte dell’impero mediante il minuzioso apparato statale, felice eredità di quella vecchia Roma riportata in seno alla sua romanità (molto ellenicheggiante) soltanto per sei, sette lustri…
Sono avvincenti, nel racconto viziato dai pregiudizi politici e dai rancori personali, anche le congiure che vengono tentate contro Giustiniano: tra quella dissolutezza e lascivia che lo storico attribuisce a Teodora, tra le prove di trame mai riuscite, si inserisce forse la più famosa delle rivolte contro l’imperatore. Quella cosiddetta “di Nika“. Non si tratta di un persona in carne e ossa, ma del grido che all’ippodromo si lanciava contro i gareggianti: “Νίκα“, trasposizione dorica della “Nίκη“, la classica personificazione della “Vittoria“.
La vicenda, che potrete leggere nelle “Storie segrete“, assume i toni di un piccolo giallo antico: la rivalità tra due fazioni (chiamarle “squadre” sarebbe improprio anche se farebbe meglio comprendere davanti a cosa ci troviamo) dei “Verdi” e degli “Azzurri” sfocierà non solo in una contrapposizione meramente agonistica, ma avrà i toni accesi della disputa politica e, in particolare, religiosa.
Abbiamo fatto cenno all’inizio delle tante sette cristiane che pullulavano nelle diatribe sottili, ed anche tanto pedanti, di archimandriti come Eutiche (a cui si deve il “monofisismo“, in sintesi la sola natura divina di Cristo), e di altri che utilizzavano il discrimine tra questo o quel concetto teologico per influenzare anche il potere politico.
Nonostante il vizio originario dell’acredine verso Giustiniano, Teodora, i generali delle guerre di riconquista e gran parte dei funzionari rimasti in organico alla corte di Bisanzio, ogni tanto nelle “Storie segrete” viene fuori la bontà dello storico che si ritrova, non proprio gioco forza, a fare i conti con i fatti che, come ci ha insegnato Gramsci, hanno la testa molto, ma molto dura.
Leggere Procopio con questo approccio disincantato aiuterà ad apprezzarlo meglio anche come eccellente storico di una straordinaria epoca della romanità passata ma, in verità, ancora tutta da passare…
STORIE SEGRETE
PROCOPIO
BIBLIOTECA UNIVERSALE RIZZOLI
€ 10,00
MARCO SFERINI
29 marzo 2023
foto: particolare del celebre mosaico (VI secolo) della Basilica di San Vitale a Ravenna raffigurante l’imperatrice Teodora e la sua corte; tratto da Wikipedia