Il giornalismo è stato più volte portato sul grande schermo. Il cinema ha, infatti, raccontato importanti inchieste, da ricordare Tutti gli Uomini del Presidente (1976) con Dustin Hoffman e Robert Redford sullo scandalo Watergate o Il Caso Spotlight (2015) di Thomas McCarthy con Mark Ruffalo e Michael Keaton sulla pedofilia nella chiesa, e ha descritto reportage di guerra come Un anno vissuto pericolosamente (1982) di Peter Weir con Mel Gibson e Sigourney Weaver o Salvador (1986) di Oliver Stone con James Woods. Poi ci sono quelli che fanno documentari d’inchiesta come Michael Moore e chi giornalista lo è per davvero e negli ultimi anni ha deciso di cimentarsi alla regia, portando sul grande schermo storie dimenticate o ignorate. Il suo nome è Mario Molinari, giornalista d’inchiesta “urticante”.
Nato a Milano il 12 agosto 1967, con un mese di anticipo sul previsto, ha collaborato con Striscia la Notizia, suoi furono quasi tutti i servizi al fianco del Gabibbo, animato da Gero Caldarelli che cogliamo l’occasione per ricordare, dal 1993 al 2005. Poi Cronache Marziane, Matrix (guidato all’epoca da Enrico Mentana), Mixer, Le Iene (che, a proposito di cinema, deve il nome al capolavoro di Quentin Tarantino).
Partiamo proprio da qua. Il 15 marzo 2007, assieme a Massimo Alberizzi, partecipasti alla liberazione di due ostaggi italiani in Nigeria. Il tutto venne documentato in un servizio che andò in onda proprio a Le Iene. Ma la messa in onda non fu semplice e di fatto quel servizio pose fine alla tua esperienza televisiva. Ce lo puoi raccontare?
Si, posso provarci, ma permettimi un passo indietro: oltre mille servizi col Gabibbo e senza a Striscia la Notizia mi hanno impresso un marchio indelebile, come direbbe il Preside albenganese Antonio Ricci, al quale devo la svolta creativa della mia vita.
Dunque, gli ostaggi. Hai tempo? Propongo al curatore de Le Iene di partire per Port Harcourt, capitale economica del petrolio sul delta del Niger. Insieme al collega ed amico Massimo Alberizzi, storico inviato del Corriere della Sera apriamo un canale con il “portavoce” (!) dei guerriglieri del MEND – Movimento per l’emancipazione del Delta del Niger – che ha rapito e tiene in ostaggio due lavoratori italiani dell’ENI, che laggiù è una potenza feroce. Come qui.
Ottengo l’ok. Faccio scalo a Lagos. Appena uscito dall’aeroporto – dove il relitto semidistrutto di un Boeing 747 schiantatosi fuori pista ti dà il benvenuto, col taxi nella morsa del traffico e una temperatura di 44°, capisco come bianco di essere a rischio rapina o rapimento. A rischio vero. Il giorno dopo con un velivolo al limite dell’impossibile atterro a Port Harcourt capitale economica del petrolio tra i migliori al mondo. Con Massimo parte la trattativa via mail con l'”ufficio stampa” del MEND, che si firma Jomo Gbomo. I tempi sono infiniti, e nei quindici giorni che ci separeranno dall’ora X, giriamo immagini sconvolgente povertà, chiusi in un taxi, ma anche a piedi, a nostro rischio. Io non ho nessuna assicurazione, come ovvio per una partita IVA. Subito fuori dal centro cittadino le condizioni di vita sono impensabili.
Oltre 50 anni di sfruttamento massivo delle risorse petrolifere da parte delle major mondiali e non c’è una rete d’acqua potabile. La notte si piomba nel buio fitto: la rete elettrica dove non è guasta, non c’è. Chi può ha un generatore, come l’hotel. Una commessa di un piccolo supermarket guadagna in un mese dieci volte il prezzo di un deodorante. Anche meno. Accanto ad un negozio di scarpe “di lusso” le fogne scorrono a cielo aperto. Una scuola, “ristrutturata” da una delle “Sette Sorelle”, dopo tre anni cade già a pezzi. In un Paese di giacimenti petroliferi, sul Delta, la maggior parte dei benzinai sono chiusi. La benzina raffinata è merce rara, e si fa la coda quando un distributore la mette a disposizione. Random.
Vado al quartier generale dell’ENI, poco fuori città, immerso nella miseria. Enorme. I lampioni, che fanno capolino dietro mura e filo spinato, anziché esser rivolti verso la pubblica via, guardano verso l’interno… Mezz’ora di portineria e mi accompagnano al palazzo. Un addetto italiano scende nell’atrio, mi dice che non vuol parlare con la stampa e mi mette alla porta. Ma non alla portineria: fuori. Ci sono 45 gradi e sono un bianco con una telecamera. Loro sanno cosa rischio aspettando un taxi per tre quarti d’ora, ma pazienza.
Nel frattempo mi chiama la produzione: “cosa ci fai lì?” Ma come cosa ci faccio qui, abbiamo preso la decisione di comune accordo… “ha chiamato l’ENI…” Non realizzo che – nei fatti – il mio lavoro sarebbe andato a morire di lì a poco…
Dopo due giorni di silenzio, mentre la diamo per persa, squilla il telefono: tra un quarto d’ora dobbiamo essere al numero 1 di Creek Road, al limitare della baraccopoli sul fiume. Un ragazzo ben vestito fa un cenno al tassista. Ci fermiamo, paghiamo, scendiamo e lo seguiamo, senza una parola.
L’emissario del MEND in borghese ci fa attraversare tutto lo slam sotto la pioggia, lungo sentieri di fango. La sua camicia fashion nasconde una pistola di grosso calibro. I bianchi da quelle parti, non sono mai passati. Per proseguire, ad un certo punto, occorre una gabella: le cose si mettono male e sfioriamo il conflitto a fuoco. Il volto di Massimo assume un colore terreo, e credo anche il mio. Stiamo riprendendo tutto con un cellulare che porto al collo. Sento la morte vicina ma fortunosamente la diatriba si scioglie dopo una breve trattativa in una lingua mai immaginata.
Molo. Saliamo su una barca, una specie di motoscafo “scabecio” ma con un maxi motore. Aspettiamo l’ordine di salpare per quasi tre ore, sotto un temporale. Quando scende la sera ci inoltriamo lungo le infinite vie d’acqua dell’immenso delta del Niger. Chi sta al timone lo conosce palmo a palmo. L’oscurità è squarciata da qualche lampo e dalle fiammate delle piattaforme petrolifere. Un Blade Runner tra acque livide e foreste tropicali.
Approdiamo su una piccola spiaggia. Buio pesto, cuore in gola. Camminiamo per una ventina di minuti inoltrandoci nella giungla, quella vera. All’improvviso, luci, qualche bazooka, guerriglieri incappucciati armati fino ai denti, ma di Francesco Arena e Cosma Russo nessuna traccia.
Si aspetta ancora. Temiamo di essere ostaggi a nostra volta quando all’improvviso eccoli, con ancora indosso i giubbotti di salvataggio. Iniziamo con le interviste e alla fine del (poco) tempo concessoci regalo loro la maglietta de Le Iene, che portano bene. Loro la sfoggiano. È uno scoop. Saluti, abbracci, e il ritorno.
I guerriglieri sono completamente ubriachi e dalle barche, mentre galleggiamo aspettando il via libera, i miliziani sparano in aria con le mitragliatrici. Il rumore è assordante. Si fa largo il timore – con tutto quel maledetto casino di alcool e riti scaramantici – di essere intercettati da qualche intempestiva motovedetta della marina nigeriana.
Mentre planiamo nel buio, i due ostaggi raccontano di come l’ENI in realtà conoscesse il luogo della loro detenzione, tanto da inviar loro viveri e spaghetti. Scaduti, precisa Francesco Arena…
Ci sbarcano in fretta e furia alla base della Saipem, attraverso una piattaforma sul fiume. Da dentro ci giungono delle grida, in italiano “sono andati via…?!”
Solo dopo ci fanno entrare. Ci sono tutti, anche i servizi, non si capisce se dell’ENI o segreti. Fatto sta che dopo qualche battuta e un caffè, caricano i due ostaggi su un maxisuv Mercedes con lampeggianti incorporati, e se ne vanno. Senza dare nell’occhio…
Il giorno dopo il telefono esplode. La notizia apre tutti i telegiornali.
Organizzo il rientro, arrivo in redazione. L’atmosfera sotto sotto non è così cordiale. L’ENI vuole replicare…
Andiamo al quartier generale di San Donato Milanese, dove stava Enrico Mattei, prima che lo ammazzassero. Mattei che mai avrebbe voluto le situazioni che ho visto con i miei occhi e che voglio raccontare… Arriva l’addetto stampa. Non fa caldo ma dopo le prime domande lui inizia a sudare. Breve intervista. Ci congediamo nel gelo.
Devo correre a scrivere e montare il servizio. La prima versione “non va bene”. Viene tagliata tutta la parte sulle assurde condizioni di vita di quel popolo spremuto e vessato, dal colonialismo prima, dal petrolio (che se ne va) poi. Sono furioso. Proseguo nel montaggio mentre inizia la puntata. Son circa le 21:30 quando il pezzo è pronto per la messa in onda. Ma la macchina – un Betacam da 40.000 €, curiosamente si inceppa. Si reinceppa. Si inceppa ancora. Non si riesce a scaricare il servizio dall’Avid al nastro. Quando va in onda, è quasi mezzanotte. Il pubblico non c’è più. E il racconto di un Paese stremato, resta su un nastro inutilizzato. Nessuno saprà. E la colpa – as usual – sarà mia. (ENI fece presente di investire 119 milioni di Euro l’anno in pubblicità…). Non voglio aggiungere altro.
Hai avuto altri problemi con i tuoi servizi?
Telecom ci chiese danni per 5 miliardi, per un’inchiesta fatta per Striscia la notizia, ma il Tribunale di Torino ci diede ragione. Così come quando fummo denunciati per aver oltrepassato, sempre per un servizio giornalistico, una zona militare vicino a Cremona. Pochi giorni dopo il terremoto del 1997 in Umbria e nelle Marche, scoprimmo, su segnalazione, che un deposito “ospitava” decine di moduli abitativi bellissimi, ma inutilizzati che sarebbero stati, invece, utili nelle zone terremotate. Lasciai la troupe fuori e scavalcai la recinzione. Fummo accusati per invasione di zona militare e per riprese non autorizzate, ma il magistrato ci diede ragione chiedendo l’archiviazione, perché la zona non era solo militare, perché non c’era nessun dolo e perché, come per Carola Rackete, c’era uno “stato di necessità”. Ma la cosa più importante fu che il giorno dopo i moduli arrivarono nelle zone terremotate.
Servizi sulla politica?
Striscia la notizia, all’inizio, seguiva anche i congressi di partito, cercando gli aspetti collaterati della politica. Ti ricordi il “fu-fu” di D’Alema? L’ho scoperto io, con un operatore, durante una partita di calcio tra politici e magistrati. Divenne una forma di costume e contribuì a sdoganare D’Alema da funzionario freddo di partito a personaggio dal volto umano. Berlusconi ci accusò di aver contribuito a far vincere l’Ulivo nel 1996.
A proposito, si sentiva il peso di Berlusconi nelle sue emittenti?
A “Striscia” no. Anche se eravamo una redazione “rossa” e venivamo visti da altri con sospetto, perfino per l’abbigliamento. Pure il Gabibbo era rosso per quello.
A Matrix?
Due servizi non furono troppo apprezzati da Mentana: uno sulla TAV, mostrammo l’amianto, l’altro lo girai a Cavriago dove in piazza c’è il busto di Lenin e dove tutti si dichiarono comunisti. Le note dell’Internazionale risuonarono in seconda serata su Mediaset! Poi passai a Le Iene, Mentana resta tuttavia una delle persone più intelligenti di tutte le terre emerse, oltre che il miglior direttore.
Quanti servizi ha fatto per la televisione?
Oltre 1200…
Ti piacerebbe ritornare?
No, sono troppo vecchio e fare TV è usurante.
Nemmeno se ti chiamasse Antonio Ricci?
Se mi chiamasse Antonio probabilmente tornerei, anche se “Striscia” è tanto cambiata. Ricci era un grande estimatore delle inchieste, ma la trasmissione dovrebbe tornare a farle.
Quando hai maturato l’idea di realizzare, oltre a servizi giornalistici, corti a soggetto e documentari?
Negli ultimi anni. Ma c’erano state delle avvisaglie…
Il tuo primo lavoro cinematografico è stato, nel 2002, Notte d’Altrove cortomegraggio sull’immigrazione, tema quanto mai attuale, vincitore del concorso “Le luci di Brindisi” Telepiù al Torino Film Festival. Eri in anticipo sui tempi?
Purtroppo si, credo. Era il 1998. Le inchieste di Striscia ruggivano.
Ci siamo letteralmente barricati con il Gabibbo e un’indimenticabile troupe in una ex scuola di Bologna occupata da extracomunitari senza una casa. Lo sgombero era programmato per quel giorno ma le Forze dell’ordine non intervennero perché “dentro c’era il Gabibbo”. Cenammo emozionati con quella gente così speciale. Chiesi la camera in prestito all’Operatore, Maurizio Pondini, e riscoprii i miei inizi. Girai una breve cronaca di quella notte. Il povero Gero Caldarelli, l’originale ripieno del Gabibbo, dormì col costume addosso, pronto, in caso di irruzione.
Ce ne andammo stravolti solo dopo che il Sindaco promise una sistemazione per gli occupanti, senza manganelli.
Poi mi dimenticai di quel materiale che mi tornò in mente quando ascoltai un pezzo di Ryuichi Sakamoto. Un brano breve, dal titolo “Tokio story”. Non so perché ma era la musica perfetta per quella storia. Nacque così “Notte d’altrove”, non certo per merito mio che lo feci, ma per la travolgente emozione che mi diede quel minuto e quaranta di disumana Poesia Musicale.
Nel 2016 hai realizzato Oltre lo specchio, la storia di un uomo vittima di mobbing. Secondo te perché il tema del lavoro è praticamente ignorato dal cinema?
Perchè è difficilissimo da raccontare. E poi, lo vedi il cinema italiano in quali condizioni è ridotto…? Il mobbing è come la mafia, è sopraffazione e assoggettamento.
Sempre nel 2016 hai partecipato, insieme tra gli altri a Marco Travaglio, al documentario Libera Stampa in libero Stato di Daniele Ceccarini. Proprio con quest’ultimo hai avviato una collaborazione che ha portato ad alcuni dei tuoi film più noti a partire dal documentario Tonino (2017), un lungo lavoro di ricerca dedicato a Tonino Guerra, antifascista detenuto nella Germania nazista, artista, poeta, sceneggiatore (basti pensare ad Amarcord). Ma il film, trasmesso anche dalla RAI, si concentra soprattutto sull’amore per la terra e l’ambiente di Guerra… ben prima di Greta Thumberg. Come è si è sviluppata questa “inedita” lettura?
Per magia. Capitammo – Giovanna Servettaz ed io – una sera a Pennabilli, il suo paese, sulle alture di una Romagna incantata. Entrammo in uno dei suoi Musei all’aperto, e l’atmosfera ci travolse, semplicemente. Iniziammo a documentarci scoprendo un uomo straordinario, un poeta essenziale e grandissimo, un ecologista ante litteram. La portata creativa e la tenerezza della sua figura, pur enorme, ci spinse ad intervistare affettuosamente i suoi più grandi amici del posto, ma anche Luis Sepulveda, Vittorio Taviani, Vittorio Sgarbi, Oscar Farinetti. Il nome di Tonino era una specie di passepartout gonfio di una stima quasi metafisica. Non credo nel fato, ma posso dirti che la quantità di positive, ripetute coincidenze che accompagnarono quel lavoro, mi lascia a tutt’oggi stupefatto. Purtroppo oggi in molti lo ricordano solo per la pubblicità di Unieuro, “L’ottimismo è il profumo della vita”.
Un altro tema che segui con particolare attenzione è quello della criminalità organizzata. Da anni ti sei trasferito in Liguria, la regione del nord Italia con maggiori infiltrazioni della ‘ndrangheta, e nel 2017 hai raccontato, con Mimmo Lombezzi, la storia di Rolando Fazzari nel film Rolando, un Padre contro la ‘Ndrangheta, girata tra il ponente ligure e i cantieri del Terzo valico. Ce la puoi ricordare?
Rolando Fazzari è nato in una famiglia di ‘ndrangheta. Adolescente, gli hanno messo in mano una 38 special e gli hanno detto chi doveva ammazzare. Lui si rifiuta e negli anni ripudia la famiglia. Viene emarginato ma lavora duramente (a dir poco) per decenni alla fabbricazione in proprio di blocchetti per la pavimentazione di parcheggi e marciapiedi. Nonostante le minacce degli ‘ndranghetusi della zona. Un solo operaio, che per lui era come un fratello. Una frana in cantiere si porta via Gabriele, suo figlio ventenne. L’alluvione del 2016 distrugge la strada vicinale che porta al suo cantiere tra i monti di Balestrino. Nonostante le promesse di Toti, alle quali ero presente, nessuno ricostruisce la strada e lui è costretto a chiudere. La politica cieca, ottusa o in malafede ti ammazza anche senza volerlo.
Non meno interessante un’altra storia che hai portato sullo schermo, quella di Pietro Benelli, un fotografo affetto dalla sindrome di Asperger, nel film Gerda (2017), ancora diretto con Daniele Ceccarini, con Alessandro Haber come protagonista. Ispirato ad una storia vera, in questo corto evidenzi, tra l’altro, le difficoltà del fotografo nella ricerca del lavoro. Vado fuori tema, ma dopo aver visto con i tuoi occhi questo tipo di malattia, come hai reagito alle “battute” di Beppe Grillo su autismo e sindrome di Asperger? Tornando al film come è stato lavorare con Haber?
Un inferno, anche per le temperature della location. Un ufficio – stanzino; finestre chiuse e quarzi accesi: una sauna. Ma il lavoro nonostante le difficoltà tecniche venne bene. Una sindrome poco conosciuta ma molto diffusa, quella di Asperger. Pietro Benelli, l’attore protagonista, che ne è realmente affetto, e che è stato rimbalzato da decine di colloqui di lavoro per il suo non saper fingere, è una persona di straordinaria intelligenza ed ironia. Le battute di Grillo non meritano una replica.
Dopo Fuori Controllo (2017), breve corto con l’artista musicale Francesco Tarantini, giri Il nome del padre (2018), un documentario per raccontare la storia di Udo Surer, avvocato tedesco di Lindau in Baviera, figlio di Josef Maier, uno delle SS che partecipò alla strage di San Terenzo Monti e Vinca. Il film, che ha recentemente ottenuto un importante riconoscimento a Torino merita un cenno in più…
Aspetta. Sono un ex musicista, un bassista pigro, incapace ma con uno straccio di groove: passerei la vita a creare videoclip musicali. Quando lavori col tempo e le immagini, coi movimenti, se hai un minimo di senso del ritmo ti entusiasmi. È cosa divertentissima per chi fa questo lavoro in modo minuzioso e un po’ maniacale 🙂
Meno divertente ma certamente più nobile è raccontare il figlio ribelle di un nazista vero, uno che ha sparato sui civili di San Terenzo e Vinca (MS), mentre Walter Reder festeggiava nella trattoria del padre di uno dei protagonisti del film. Prima di sfasciar tutto dopo il caffè e di depredare i cadaveri dei loro modesti averi. Perché è successo anche questo. Anche Udo Sürer, come Rolando Fazzari ha ripudiato il padre e la paranoia nazista / mafiosa. Ha persino cambiato cognome. Oggi è un’avvocato. Difende i migranti, gli ultimi, senza chieder loro nulla. Suona Bella Ciao col sax e con il violino. Ma se lo guardi bene negli occhi, intravvedi la tristezza penetrante di un dramma inestinguibile.
Il tuo ultimo film torna sul mondo del lavoro e sulla crisi che ha colpito la provincia di Savona, nasce così Crisi Complessa, realizzato con Mimmo Lombezzi e Giovanna Servettaz, che raccoglie le testimonianze di persone in carne ed ossa e i ricordi di un passato industriale glorioso. Perché il lavoro, che come abbiamo detto è spesso assente sullo schermo, è così presente nella tua filmografia?
Sarò banale ma sincero: perché il lavoro è vita. In ogni senso. Noialtri foresti di Milano dopo esserci presentati chiediamo sempre “tu cosa fai?” È scritto nella nostra cultura, nei nostri geni inquinati. Uno è quello che fa. Una volta. Oggi i migliori sono all’angolo, senza più diritti. Nelle aziende vincono i leccaculo, gli sgomitanti, i tagliateste, quelli che più fan risparmiare più guadagnano loro. E le aziende muoiono, anche così. Nella Milano bombardata mio padre e mia madre, scomparsi nel 1986, iniziarono coll’impastar grafite e stracci per farne delle guarnizioni. Con gli anni del boom divenne una piccola azienda, ma a differenza dei miei zii, mio papà stava sempre in officina e gli operai non erano “i suoi” né erano “i dipendenti”. Si chiamavano per nome, ed erano amici. Vengo da quella cultura del lavoro. Mia mamma sotto una pressa ci lasciò un indice, e per lo choc perse mia sorella Laura. Il lavoro è metafora della vita forse. Della vita e della morte. Perché quando passi 10 ore al giorno in fabbrica baratti una fetta di esistenza per un salario. Che ti permette di vivere – certo – ma una parte dei tuoi talenti, delle tue aspirazioni, dei tuoi sogni, muore in ogni busta paga…
Racconti storie dimenticate o sconosciute, mostri il lavoro con le testimonianze dirette dei protagonisti, continui con il tuo giornalismo di inchiesta, ma hai mai pensato di realizzare un lungometraggio a soggetto?
I lungometraggi mi mettono sempre un po’ di soggezione. Come libri da 1000 pagine. Probabilmente Crisi Complessa non l’avrei realizzato, da solo. Mi piace lavorare con gli altri, buttar la palla per vedere come torna. Spesso è difficile, ma come nel jazz, quando trovi il feeling, è anche entusiasmante. Come lo swing.
E poi non nascondiamocelo, i lungometraggi pretendono soldi, e si sa come va da queste parti, dove tutto è così difficile…
Hai un regista e un film “preferito”?
Federico Fellini. Otto e 1/2. Senza dubbi, dall’età d sedici anni. Anche se in realtà nulla si sa, tutto si immagina. Come diceva lui. Poi Blade Runner di Ridley Scott, Brazil di Terry Gilliam e Birdman di Alejandro González Iñárritu.
(Mentre cerchiamo suoi servizi sul computer, spunta un vecchio filmato amatoriale con Vittorio Arrigoni). Come mai eri in Palestina?
Ero andato per Repubblica e diventai amico di Vic. Nel video, che vediamo solo io e te, c’è un uomo che ha passato trent’anni nelle carceri israeliane, suo figlio e Vittorio che scuotono del fosforo bianco, non più pericoloso, ma ancora attivo. I “passatempi” a Gaza…
Hai idee e progetti futuri?
Proprio oggi (22 luglio 2019, nda) abbiamo abbiamo costituito l’associazione “FeelMare” per fare promozione sociale con filmati, col cinema. Dobbiamo scegliere tra due loghi, io preferisco quello viola (vedi foto, nda).
Conoscendoti so quanto sia stato difficile, per una volta, passare da intervistatore ad intervistato, quindi grazie davvero.
Non devi ringraziami. Grazie a te.
redazionale
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