Negli anni ’60 usciva per Einaudi un’opera che avrebbe avuto come caratteristica intrinseca quella di essere davvero formativa, così come avrebbe recitato successivamente la seconda di copertina nell’introdurla al lettore curioso e affascinato dagli eventi di un lungo cammino umano in generale e da quelli del Novecento per essere più precisi.
Luigi Salvatorelli e Giovanni Mira avevano pazientemente ricostruito la “Storia d’Italia nel periodo fascista” (Einaudi, poi Oscar Mondadori, prima edizione 1969) partendo dai mesi successivi alla fine della Prima guerra mondiale.
Chiunque avesse voluto scrivere del movimento fascista e del suo sviluppo politico e sociale, non avrebbe, del resto, potuto esimersi dal raccontare compiutamente in che contesto quel particolare fenomeno, del tutto nuovo tanto alla cultura liberale quanto a quella del movimento operaio che si fronteggiavano da tempo, in quel momento, con particolare avversità, aveva trovato le condizioni contingenti per emergere e diventare un antagonista di radicate posizioni ideologiche, anche socio-antropologiche, naturalmente politiche e quindi pure economiche.
L’opera di Salvatorelli e Mira è una ricostruzione molto particolare e particolareggiata: in prima istanza perché è davvero minuziosa ma non pedante nell’esserlo. Scava nelle pieghe di un periodo veramente complicato della vita di una Italia, tutto sommato, ancora giovane, riunita in regno appena mezzo secolo prima. Un Paese in cui le differenze culturali e sociali sono uguali nell’essere inversamente proporzionali tra nord e sud.
Là al settentrione, dove la cultura è maggiore, questa è anche privilegio di poca parte del popolo. Lì nel Mezzogiorno, dove la condizione sociale tende è nettamente più disagevole per le grandi masse, la cultura si ferma ben prima Eboli.
Industrialismo e mezzadria, operaismo e lavoro dei campi, città di grande retaggio storico precipitate in una modernità in cui l’Italia del colonialismo si è sforzata di entrare come la “grande proletaria“, come colei che ha scoperto il suo posto nel mondo. Per quello “al sole“, oltre alla ferocia dimostrata in Libia, occorrerà attendere la tragedia dell’invasione dell’impero di Hailé Selassié.
Gli eventi sono, dovrebbero essere – diciamo così – abbastanza noti. Eppure, proprio in questo nuovo scorcio di secolo, in questa ultramoderna società capitalistica dove non mancano i mezzi per sapere tutto e anche di più, quello che si può riscontrare quando si parla di fascismo e di nazionalsocialismo è che il metodo storico viene stravolto e non considerato, spesso e volentieri, come l’unico approccio possibile per appurare la verità di quanto accadde nel ventennio mussoliniano.
Questo stravolgimento è opera di tentativi revisionisti messi in pratica, fondamentalmente, da una volontà politica precisa atta ad una rivalutazione complessiva non solo del fascismo, condannato dalla Storia come uno dei capitoli più devastanti per la vita del popolo italiano, per quella della libertà sociale, civile, morale e culturale come fondamento del consesso nazionale dalla fondazione del Regno d’Italia nel 1861, bensì di tutta una serie di connessioni che hanno dato la possibilità alla novità eclatante del “totalitarismo” di esistere e di diventare una categoria mai letta, detta, ripetuta nel corso dei secoli e dei millenni.
Oggi, quando ci riferiamo a un “regime totalitario“, essenzialmente pensiamo ad una dittatura a tutto tondo, in cui non vi è nessuno spazio di agibilità critica, di contestazione, di obiezione; dove la libertà di parola è vincolata alla condivisione della linea ufficiale del regime tanto pubblicamente quanto privatamente, dove la polizia viene chiamata “segreta” e ha praticamente tutti i poteri per imprigionare, torturare, addirittura far sparire i cittadini che vengono classificati come “oppositori“. Secondo una ricostruzione abbastanza certa, il termine viene per la prima volta usato da Giovanni Amendola, giornalista e politico antifascista.
Stranamente, rispetto a quello che ci balza in mente pensando ai totalitarismi novecenteschi, ai due regimi che sono degni di questa categorizzazione tutta nuova (nell’allora prima metà del Secolo breve), ossia l’Unione Sovietica di Stalin e il Terzo Reich di Hitler, il termine “totalitarismo” viene per la prima volta usato proprio riferendosi a questo modello di governo del tutto rivoluzionario, regressivamente tale, che è il fascismo di Benito Mussolini.
Luigi Salvatorelli e Giovanni Mira fissano anche la data di nascita di questa svolta repressiva che non lascia scampo a nessun italiano, che lo insegue fin dentro le mura di casa, che lo agguanta in ogni ambito e momento della sua giornata: è quella che i due storici chiamano “la fine della vita politica“. E’ l’espulsione degli aventiniani dalla Camera dei Deputati. Il termine della dialettica parlamentare è, nei fatti, la fascistizzazione “totale” delle istituzioni liberali, di una democrazia censitaria, borghese, antioperaia e per niente veramente democratica nella sua declinazione costituzionale per come la intendiamo oggi.
E’ un salto nel buio, vero e proprio. Nessuno sa realmente quello che attende l’Italia. La monarchia sembra sempre rappresentare una garanzia alla deriva violenta di un movimento fascista che nei confronti degli avversari non usa le parole ma il manganello, l’olio di ricino, le botte, il sequestro, la morte. Le “prerogative” regie rimangono. Su questo non c’è dubbio alcuno. Ma, scrivono i due storici, siamo ormai innanzi ad uno «spegnimento della vita pubblica» del Paese.
Le pattuglie di opposizione che rimangono alla Camera, dopo la fine dell’esperienza aventiniana, sono per lo più i deputati che si stringono attorno al vecchio Giolitti. Emblema del liberalismo che declina su sé stesso e che la classe borghese si guarda bene dal salvare, sperando che questi fascisti, nuovi e violenti come piace al padronato nei confronti dei rossi e dei cattolici sociali, mettano fine alle velleità bolsceviche, ai tentativi rivoluzionari in una Italia in cui la rivolta sociale si è già consumata ben prima dell’arrivo dei Fasci di combattimento.
La trattazione dei fatti svolta da Salvatorelli e da Mira è davvero minuziosissima. Il testo è ricchissimo di citazioni documentali, di discorsi, di lettere, di articoli di quotidiani e settimanali dove si ritrova esattamente quello che pensavano gli italiani stretti tra le maglie del regime, che si facevano sempre più serrate, asfittiche e che impedivano di far passare qualunque anche solo ventilata ipotesi di critica propositiva. Ciò che Mussolini diceva doveva essere sempre assunto come un dettame incontrovertibile.
Sui palazzi delle federazioni fasciste campeggiano alcuni motti divenuti celebri: «Mussolini ha sempre ragione» è uno di quelli che va per la maggiore. E se il duce del fascismo ha con sé sempre la ragione, chi può pensare altrimenti di possederne anche solo una briciola e di condividere questo peso con il capo della rivoluzione delle camicie nere?
Il totalitarismo è anche questo: l’assoluto prevale sul relativo, il tutto sul particolare. Il che non significa che la primordiale socialisteggiante vena del politico-giornalista nato a Predappio si sia introdotta nel programma del PNF (Partito Nazionale Fascista). I compromessi con la borghesia sono così necessari, che Mussolini dimentica ben presto le sue origini. Fino in fondo. Nonostante nel 1927 si proponga di seguire una linea economica improntata alla deflazione, per una rivalutazione della lira, quindi dei salari, il governo fascista è un governo che conferma la variabilità della dipendenza del lavoro dall’impresa.
La rivoluzione dei fasci, sottolineano Salvatorelli e Mira, è una rivoluzione del potere per il potere e non un capovolgimento dei rapporti di forza sociali allora esistenti. La fascistizzazione che il regime mette in pratica colpisce molti aspetti della vita comune, ma, più di tutto, in quei primi anni di consolidamento della struttura parallela del PNF a quella delle istituzioni reali (e propriamente statali), il giornalismo, l’informazione, la diffusione delle notizie e, in senso molto più lato, la cultura, la scuola, gli atenei.
La dittatura di Mussolini, addirittura, mette avanti a tutto, anche della cultura stessa di un popolo, il concetto di “ordine“. E’ con direttive di questa impronta, che si somiglia molto ai tentativi securitaristi di oggi, che si fa della riorganizzazione della polizia un primo aspetto di cui i prefetti devono tenere conto. Il governo fascista esige che tutto sia all’insegno della forza, dell’esibizione della stessa attraverso gli apparati della repressione tanto del dissenso quanto della delinquenza comune.
Per la verità, il mito del fascismo come garante della sicurezza sociale e civile, è destinato a rimanere tale: fa parte di una serie di tentativi di apologia di un sistema criminale che, nell’essere ferocemente muscolare, senza alcun avversario possibile che si frapponesse fra intenti e realizzazione degli stessi, diventa uno Stato nello Stato e non è garanzia di prevenzione dei crimini. La figura del “Duce del Fascismo” mette in ombra il re Vittorio Emanuele III che, da monarca comunque “costituzionale“, finisce per l’essere una comparsa ufficiale nelle celebrazioni di Stato, nei ricevimenti con gli ambasciatori esteri.
Il ruolo della monarchia sabauda nell’affermazione del fascismo come partito al potere, come regime che si appropria mediante un colpo di Stato (la “marcia su Roma“), sebbene permesso alla fine dalla mancata firma sul decreto di Facta che poneva lo stato di assedio della capitale e la sua difesa dalle camicie nere, è ben più di qualcosa di formale e di sminuibile in questo senso.
La Casa Reale che aveva contribuito a riunire il Paese sotto un’unica bandiera, dopo aver mortificato l’epopea risorgimentale popolare con l’annessionismo progressivo di terre che avrebbero meritato un processo ri-costituente per l’intera nazione, dopo prevalso sul partito democratico, ovviamente su quello repubblicano e persino sul focolaio di rivoluzione garibaldina che, al principio della Spedizione dei Mille aleggiava sul Piemonte e sul Lombardo in rotta verso la Sicilia, invece di scegliere la difesa del liberalismo come principio moderno delle democrazie, apre le porte del governo a Mussolini.
La complicità con il regime è qualcosa di molto difficile da dimostrare passo dopo passo, mese dopo mese dell’intero Ventennio; la Storia d’Italia nel periodo fascista è costellata di episodi in cui il re e il duce non vanno d’accordo; in altri momenti invece sembrano condividere scelte sia di politica interna sia di politica estera. Mussolini mette sul capo del sovrano la corona di “re d’Albania” e poi di “imperatore d’Etiopia“. Rimane davvero arduo pensare che Vittorio Emanuele III e tutta Casa Savoia non fossero poi così irriconoscenti verso un governo che, era sì una dittatura, ma portava alla monarchia un valore aggiunto in questi termini.
Il disprezzo internazionale per le aggressioni fasciste si tradurrà nelle sanzioni messe dalla Società delle Nazioni ad un’Italia, presentata dalla propaganda guidata da Starace e dall’insieme del PNF, come la vittima di una enorme ingiustizia. Perché il colonialismo era stato negato al nostro Paese per troppo lungo tempo dalle potenze che il duce comincerà a chiamare sempre più ossessivamente le “democrazie plutocratiche“. Qui c’è, sottolineano i due storici, un richiamo ai primordi di una critica socialisteggiante che, ogni tanto, fa capolino in qualche frase del tiranno.
Se si affiancasse alla lettura di questa storia dell’Italia nel periodo del fascismo anche un volume con i discorsi di Mussolini dal 1904 al 1945 (edizioni Feltrinelli, curato da David Bidussa), ne verrebbe fuori quasi uno sceneggiato letterario-storico, una specie di feuilleton in cui, come ha scritto Leo Valiani, «la storia fa meditare chi l’ha vissuta e rivela alla maggior parte dell’opinione vicende ignorate che paiono romanzesche e furono invece dolorosa, severa realtà».
STORIA D’ITALIA NEL PERIODO FASCISTA
LUIGI SALVATORELLI – GIOVANNI MIRA
ENAUDI (1964) / OSCAR MONDADORI (1969)
€ 35,00
MARCO SFERINI
13 settembre 2023
foto: particolare della copertina del libro
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